Acceleratori di impresa: dove le startup mettono le ali
Dopo la cova al calduccio nel pollaio, il pulcino nasce e inizia a correre: succede più o meno lo stesso con le imprese innovative, le cosiddette start up, che dopo essere state “coccolate” e accompagnate nelle primissime fasi del loro sviluppo dagli incubatori, vengono lanciate sul mercato da altri soggetti, la cui mission è quella di insegnare loro a volare. Si tratta degli acceleratori di impresa, programmi finalizzati allo sviluppo di startup e imprese early stage, nonché naturale evoluzione degli incubatori.
«Il lavoro degli acceleratori sta nel favorire l’incontro con gli investitori, validare l’idea di business alla base delle startup, lanciarle sul mercato e renderle competitive», spiega di Luigi Capello, CEO di LVenture Group e LUISS ENLABS, partner di Luiss EnLabs, acceleratore con sede a Roma che ha finora investito oltre 28 milioni di euro in più di 45 startup.
Tipicamente gestito da imprenditori e mentors, in un acceleratore si riceve assistenza per la creazione di un modello di business, ma non solo: «Importante caratteristica degli acceleratori è l’investimento di capitale, in una fase di secondo sviluppo della startup, quando cioè è costituita e deve misurarsi col mercato», aggiunge Matteo Bartolomeo, ad di Make a Cube, primo incubatore-acceleratore in Italia specializzato in imprese ad alto valore sociale, ambientale e culturale. «Il focus degli acceleratori è la verifica della scalabilità, replicabilità e interesse del mercato dei prodotti e servizi che le startup sviluppano; dati i tempi molto stretti hanno un programma serrato: lavorano a batch, mettendo cioè nella stessa “classe” più startup, in modo da rendere più efficiente l’erogazione del programma di accelerazione, e investono mettendo a disposizione della nuova impresa fondi e servizi di mentorship, in cambio di equity della startup e sperando in un ritorno a lungo termine, al momento della cessione delle proprie quote di partecipazione».
Validare l’idea di business delle startup, farle incontrare con gli investitori, lanciarle sul mercato e renderle competitive: questo è il lavoro degli acceleratori.
Quanti sono, dove sono
Consolidata realtà in molti Paesi sviluppati, gli acceleratori in Italia sono attivi da qualche anno sostenuti essenzialmente da investitori privati, come venture capital o aziende, anche se non mancano realtà pubbliche come le università: secondo l’Osservatorio Startup Hi-tech della School Of Management del Politecnico di Milano, gli investimenti istituzionali in startup in Italia ammontano a 63 milioni contro i 624 della Francia e i 127 della Spagna. In particolare Oltralpe il panorama è divenuto molto dinamico grazie al varo del fondo d’investimento pubblico, gestito da BipFrance e fortemente voluto dal presidente Macron, dalla cifra record di 10 miliardi di euro. Quanto agli investitori privati, sempre secondo i calcoli del Politecnico, i finanziamenti in startup innovative ammontavano a 217 milioni di euro nel 2016, un dato in crescita del 24% rispetto al 2015.
Ma quanti sono gli acceleratori in Italia, e dove hanno sede? L’Associazione Italiana Startup ha censito 57 “Centri di innovazione” tra le realtà associate alla propria rete e quelle che fanno riferimento all’APSTI (Associazione dei Parchi Scientifici e Tecnologici Italiani); di questa sessantina di enti, sono 32 quelli che svolgono attività prevalente di acceleratore, di cui 23 al Nord, 8 al Centro e uno soltanto al Sud, il Consorzio Area Tech Coroglio di Napoli, che riunisce le imprese nate nel Polo Tecnologico di Città della Scienza. Tuttavia, avverte il direttore generale di AIS, Federico Barilli, visto che «la mission di ciascuno di questi 57 centri di innovazione si concentra attorno a innovazione e crescita, ponendosi un obiettivo di sviluppo importante e veloce, possiamo dire che sono, di fatto, tutti acceleratori».
[legacy-picture caption=”” image=”0a41a9d4-f403-4088-8724-b4eed229c596″ align=””]Numeri piccoli, grandi prospettive
Quanto al futuro degli innovation hub, le luci si mescolano alle ombre. Se infatti – secondo Bartolomeo – il tasso di sopravvivenza di una startup al calduccio dell’incubatore è in media di tre anni, nell’acceleratore si rimane per molto meno tempo e si è costretti a uscire presto da nido, e dopo le tempeste del mercato le “exit” (ovvero la vendita, dopo anni, delle quote di una startup da parte dell’acceleratore che vi ha investito per realizzare il guadagno) sono davvero pochissime: nel 2016 appena 19, sei in meno rispetto al 2015, anche se – avverte – «l’Italia è una neonata in questo campo, ci attendiamo un’ondata di nuove imprese che escono dagli incubatori: ce ne sono decine e decine, è presto per deprimersi davanti a questi numeri».
«Gli investimenti diretti da parte degli acceleratori stanno diminuendo», gli fa eco Barilli, «a vantaggio di uno sviluppo legato più all’accompagnamento o mentorship finalizzato a reperire investitori istituzionali o corporate». Una tendenza confermata dai dati dell’Osservatorio sui modelli italiani di Open Innovation e di Corporate Venture Capital promosso da Assolombarda, Italia Startup e Smau con Ambrosetti e Cerved, del cui Advisory Board fanno parte 25 imprese, anche multinazionali, interessate a investire in startup italiane: tra le 6500 iscritte al Registro delle Imprese, ben 1.900 contano almeno un socio corporate.
In Italia gli acceleratori sono appena nati, ci attendiamo un’ondata di decine e decine di nuove imprese in uscita dagli incubatori: è presto per fare bilanci in negativo.
Lavorare sugli investitori
Che fare per migliorare la situazione? «È più che mai necessario promuovere la cultura degli investimenti in startup nel nostro Paese», suggerisce Ferrari. «A livello legislativo, sono stati fatti grandi passi avanti introducendo, dal primo gennaio di quest’anno, un beneficio fiscale del 30% per chi investe in startup innovative. Per migliorare ulteriormente, però», continua, «bisogna lavorare sulla sensibilità culturale degli investitori, in modo tale che riescano a considerare il Venture Capital come classe d’investimento etico ad alto potenziale di rendimento, ma soprattutto come vero motore per lo sviluppo economico; in secondo luogo bisogna far sì che riescano ad aumentare gli altri investitori istituzionali, come i fondi pensione e le casse di previdenza, che per struttura intrinseca, sono i player migliori per supportare e sostenere adeguatamente il venture capital».