Dall’agricoltura all’industria, la transizione green passa dalla bioeconomia
Quando parliamo di bioeconomia, ci riferiamo a quel comparto dell’economia che comprende le attività economiche che utilizzano risorse biologiche rinnovabili per produrre cibo, materiali ed energia.
Si tratta dell’economia «basata sull’utilizzo sostenibile di risorse naturali rinnovabili e sulla loro trasformazione in beni e servizi», scrive Biorepack, il Consorzio nazionale per il riciclo organico degli imballaggi in plastica biodegradabile e compostabile. Un settore, si legge, che «ha un enorme potenziale innovativo ed è la risposta a gran parte delle sfide globali che dovremo affrontare nei prossimi anni, come il risanamento ambientale o i cambiamenti climatici».
Nella bioeconomia entrano trasversalmente diversi settori, dall’agricoltura ai comparti industriali che utilizzano o trasformano le risorse biologiche. Compresa l’industria alimentare, della carta, ma anche quella chimica, energetica e biotecnologica.
L’approccio bioeconomico mette al centro del suo modello il riutilizzo delle risorse naturali, promuove un’industrializzazione intelligente che genera prodotti a valore aggiunto.
I numeri del settore
L’ottavo rapporto sulla bioeconomia in Europa del Centro studi di Intesa Sanpaolo, in collaborazione con il Cluster Spring e Assobiotec – Federchimica, definisce il settore come «sistema che utilizza le risorse biologiche terrestri e marine, nonché gli scarti, come input per l’alimentazione, la produzione industriale e di energia».
Non è quindi l’appartenenza a un determinato settore merceologico a contraddistinguere una produzione bio-based, ma l’utilizzo di input rinnovabili. «La bioeconomia è un pilastro della transizione ecologica, per la sua capacità di contribuire all’implementazione di tutte le otto aree di iniziativa politica in cui si articola il Green New Deal, rappresentandone l’elemento chiave per decarbonizzare l’economia, diminuire l’utilizzo di risorse non rinnovabili e massimizzare l’efficienza e la sostenibilità delle risorse rinnovabili», ha spiegato Catia Bastioli, Presidente di Cluster Spring e Amministratrice Delegata di Novamont.
In Europa, in termini assoluti, la Germania si conferma leader, con un valore della produzione della bioeconomia stimato in 463,6 miliardi, seguita dalla Francia con 379,4. L’Italia si posiziona al terzo posto, con un output pari a 364,3 miliardi, prima della Spagna (251,5).
Dal punto di vista occupazionale, si va dagli 1,5 milioni di lavoratori della Spagna ai 2,3 milioni di occupati tedeschi. In termini relativi, si osserva la maggiore rilevanza occupazionale della bioeconomia in Spagna e Italia, che evidenziano un peso sul totale delle attività economiche dell’11,5% e 11,4% per quanto riguarda la produzione e del 7,6% e 8,2% se si considera l’occupazione.
Bioeconomia in Italia
Nel nostro Paese la filiera agro-alimentare rappresenta circa il 60% del valore della bioeconomia, con un output di 216 miliardi, di cui 153 dall’alimentare, dalle bevande e dal tabacco e 63 dall’agricoltura, dalla silvicoltura e dalla pesca. Primo posto per questa filiera anche per quanto riguarda gli occupati del comparto (928mila nell’agricoltura e 468mila nell’industria alimentare), pari al 46,1% e il 23,2% del totale.
Sul secondo gradino del podio c’è il sistema moda, che include il tessile-abbigliamento e la concia/pelletteria/calzature: produzione per 42 miliardi (12%) e 230mila lavoratori (11,4%). A seguire il legno e i mobili con l’8,2% degli addetti, mentre la carta registra il 7,6% dell’output. Da non dimenticare la farmaceutica bio-based e le bioenergie.
Per quanto riguarda la distribuzione geografica dei lavoratori sul territorio nazionale, spicca il Mezzogiorno con 714mila persone occupate (10,4% il peso sull’economia), seguito dal Nord Est (467mila addetti, pari all’8,3%). La filiera agro-alimentare rappresenta l’attività più rilevante in tutte le aree geografiche, con percentuali che variano dal 46% delle regioni del Centro al 78% di quelle del Sud. Alcuni dati riflettono le specializzazioni settoriali dei territori. Nel Centro assumono un maggior peso il sistema moda (grazie anche alla presenza di distretti industriali del tessile e dell’abbigliamento) e la farmaceutica bio-based, per effetto della rilevanza delle imprese farmaceutiche nel Lazio. Nel Nord Est, oltre alla moda, si nota la rilevanza del legno e dei mobili, mentre nel Nord Ovest emergono la chimica e la gomma plastica bio-based.
Quali competenze
Il report “Promoting education, training and skills across the bioeconomy”, redatto da Deloitte, Empirica e la Fondazione Giacomo Brodolini, spiega che «poiché la bioeconomia non è un’entità omogenea, sarà necessaria una varietà di competenze specialistiche diverse per soddisfare le esigenze di settori e regioni specifici. Per esempio, agro-alimentare e sistema moda richiedono abilità differenti. Inoltre un insieme comune di competenze generaliste diventerà sempre più importante, dati i punti in comune nella natura della trasformazione necessaria in tutta la bioeconomia».
Le competenze generaliste più importanti comprendono il fatto di avere un’istruzione di base sulla sostenibilità, sulla circolarità e sul pensiero sistemico, che sono i capisaldi per promuovere un approccio olistico alla bioeconomia. Inoltre sono necessarie competenze trasversali, come la collaborazione, la comunicazione, la risoluzione dei problemi e la creatività, utili per accorciare la distanza tra i sottosettori della bioeconomia e sviluppare nuove soluzioni in quelli tradizionali. Infine sono fondamentali le skill imprenditoriali, in modo da identificare le opportunità commerciali emergenti e catalizzare una crescita sostenibile.
E la domanda di lavoro è in continua crescita, anche se non sempre il mercato è in grado di soddisfarla, come spiega Giampaolo Vitali, economista dell’Istituto di ricerca sulla crescita economica sostenibile (Ircres) del Cnr: «Esaminando i dati presenti nelle pubblicazioni Unioncamere-Inapp-Anpal, si nota come le figure professionali più carenti siano quelle legate al risparmio energetico, nonché alle competenze digitali necessarie per gestire le tecnologie di industria 4.0 e l’implementazione delle nuove tecnologie green. Ciò comporta, in primo luogo, la necessità di un irrobustimento dell’offerta formativa delle lauree Stem, di cui siamo carenti in Italia anche a causa della scarsa domanda che nel passato proveniva dalle imprese per questi profili professionali. Oggi la situazione è molto cambiata e la scarsità è nell’offerta di tali competenze, più che nella richiesta da parte imprenditoriale».