Il costo del cambiamento climatico per le piccole e medie imprese italiane
Le aziende che non interverranno sui rischi fisici legati alla crisi climatica avranno, nel 2050, il 25% in più di probabilità di default rispetto a oggi, e il 44% in più rispetto a chi investe. Per evitare che questo scenario si avveri, l’investimento che le piccole e medie imprese italiane dovrebbero sostenere è di circa 135 miliardi di euro entro il 2030.
A dirlo è il Rapporto Cerved PMI che utilizza le ipotesi di scenario previste dal Climate Risk Stress Test elaborato dalla Banca Centrale Europea. Dall’interazione tra il rischio transizione e quello fisico, emergono tre possibilità.
Prima di tutto, una transizione ordinata, con la temperatura mondiale che non aumenterebbe più di un grado e mezzo. Ciò sarebbe dovuto a politiche tempestive e attuate in maniera efficace che produrrebbero costi limitati.
Poi è tratteggiata una transizione disordinata, che spingerebbe il termometro in alto di due gradi e sarebbe causata da politiche attuate in ritardo. Di conseguenza ci sarebbero costi elevati per la transizione e medi per il rischio fisico.
Infine sarebbe paventato “un mondo serra”: il risultato della mancata implementazione di nuove politiche. In questo caso, si assisterebbe a costi molto limitati per la transizione e, viceversa, elevati per i rischio fisico.
Lo studio e i tre scenari
La BCE aveva applicato lo stress test alle banche, mentre il Cerved ha scelto come oggetto dell’analisi le piccole e medie imprese. Ciò è stato possibile grazie all’utilizzo di algoritmi di simulazione e bilanci prospettici al 2050 e all’integrazione degli input della BCE con dati, punteggi e modelli elaborati dal Cerved. Il risultato è consistito nella stima delle emissioni dirette, dei consumi energetici, degli investimenti per la transizione, dell’effetto carbon tax sull’Ebitda (il margine operativo lordo), dell’impatto degli eventi fisici negativi e della probabilità di default.
Inoltre, le PMI sono divise per classi di rischio: molto basso per il 61%, basso per il 17,7% medio per il 13,2%, alto per l’8,1%. Queste ultime sarebbero concentrate soprattutto in Emilia Romagna, Toscana, Liguria, Valle d’Aosta e lungo tutto l’Appennino.
Nel primo scenario, le 55 tonnellate di emissioni di CO2 si dimezzerebbero nel primo decennio, per poi scendere sotto quota 5 nel 2040 e diminuire un po’ fino al 2050. Ciò costerebbe 203 miliardi: 137 entro il 2037, poi 55,7 nei dieci anni seguenti e 10,3 nell’ultimo decennio. Il rischio di default per le PMI crescerebbe all’inizio a causa degli investimenti, ma poi scenderebbe molto. Solo nell’ultimo decennio si avvertirebbe il costo degli investimenti per la ricostruzione, ma meno dello 0,2% sull’attivo. Ridotti anche i costi di assicurazione aggiuntivi. E in entrambi i casi si avvertirebbero solo nelle zone dove il rischio fisico è alto o molto alto.
Negli altri due scenari, gli investimenti sarebbero uguali nel primo decennio (59,5 miliardi) e di conseguenza nel 2030 le emissioni di CO2 supererebbero le 50 tonnellate. Poi nel secondo scenario ci sarebbe un crollo delle emissioni dell’80% fino al 2040, per raggiungere i valori del primo scenario nel 2050. Ma gli investimenti per la transizione sarebbero più alti: 134,5 nel secondo decennio e 30,2 nel terzo. Per un totale di 224,2 miliardi.
Invece, il costo degli investimenti per la ricostruzione si comincerebbe a sentire – anche se poco – dal secondo decennio. Così anche i costi assicurativi aggiuntivi, che supererebbero l’1% tra il 2030 e il 2040. Per poi diminuire al 2050. Il rischio del default crescerebbe fino al 2040 per poi decrescere in maniera brusca fino al 2050.
L’ultimo scenario, “il mondo serra”, vedrebbe le emissioni superiori alle 40 tonnellate anche al 2050, gli investimenti per la transizione sarebbero in totale di 121,4 miliardi (poco più della metà rispetto agli altri due scenari) e il rischio di default continuerebbe a crescere. Poi i valori relativi ai costi degli investimenti per la ricostruzione e quelli assicurativi aggiuntivi schizzerebbero verso l’alto e, dal secondo decennio, riguarderebbero tutte le aree di rischio, anche quelle dove è valutato molto basso. Nel 2050 nelle zone con rischio molto alto nel primo caso raggiungerebbero l’1,6% dell’attivo, mentre nel secondo il 3% del fatturato.
Per quanto riguarda la distribuzione territoriale, nel primo scenario gli investimenti totali sarebbero maggiori nel Nord-Ovest (73,7 miliardi), poi nel Nord-Est (54,8) e nel Mezzogiorno (43,4), e infine nel Centro (31,1). Invece la probabilità di default sarebbe maggiore al Sud in tutti gli scenari (tra il 2,4 e il 3,8 per cento). Valori quasi simili al Centro e poi più bassi al Nord-Ovest e, infine, al Nord-Est (tra l’1,7% e il 2,6%).