Tra sharing economy e tutela dell’ambiente, i network di turismo rurale crescono sul web


La vostra ultima meta è stata l’affollato centro di Bangkok o le altrettanto costipate spiagge del Salento? Non ne potete più delle code per visitare il Louvre o gli Uffizi? Siete stanchi di resort da centinaia di euro a notte, aria condizionata sparata a mille e buffet che non finiscono mai, se non nella pattumiera con immane spreco di cibo? Ecco, per voi una soluzione c’è. La vostra prossima meta potrebbe essere una cascina dispersa da qualche parte nelle campagne italiane e non solo. A coltivare, allevare e sudare. Il fenomeno si chiama Wwoofing e potremmo tradurlo con “turismo rurale”. Sostanzialmente, si tratta di un mutuo scambio tra viaggiatore e contadino: il primo si rende disponibile a lavorare 4-5 ore al giorno, il secondo ricambia con vitto e alloggio. L’impegno giornaliero può variare a seconda della proposta ma non è richiesta alcuna esperienza in materia. Anzi, imparare direttamente sul campo (letteralmente inteso) fa parte dell’esperienza.

A ideare questa forma di turismo è stato, nel 1971 in Gran Bretagna, il World Wide Opportunities on Organic Farms fondato da Sue Coppard. Impiegata inglese stanca del tran tran d’ufficio che iniziò a dedicare i propri fine settimana alla natura. Da allora il concetto si è diffuso e strutturato creando una rete di realtà indipendenti e progetti naturali che hanno lo scopo di costruire una comunità globale sostenibile facendo leva sull’esigenza di aria aperta dei turisti contemporanei.

L’impegno giornaliero può variare a seconda della proposta ma non è richiesta alcuna esperienza in materia. Anzi, imparare direttamente sul campo (letteralmente inteso) fa parte dell’esperienza

Attualmente sono oltre 12mila le realtà che si sono aperte a questo tipo di turismo che accoglie oltre 80mila wwoofer all’anno in tutto il mondo. A livello di comunità locali riconosciute, l’Europa la fa da padrona con 22 associazioni di wwoofing attive, segue l’Asia-Pacifico con 13, Americhe e Africa si piazzano al terzo posto con sei realtà contattabili mentre chiude la classifica il Medio Oriente con Israele e Turchia. A queste si aggiungono 55 Paesi in cui, sebbene non sia presente un organo di riferimento nazionale, sono comunque presenti esperienze di questo tipo.

In Italia, per esempio, pagando una quota associativa di 35 euro, è possibile scegliere fra oltre 700 host differenti (concentrati soprattutto in Piemonte e Toscana). E se si guarda al progressivo, possiamo capire come nel nostro Paese il fenomeno sia in continua crescita: se nel 2004 erano “solo” mille gli utenti iscritti, nel 2013 si è arrivati a cinquemila unità; e il conto continua a crescere.

Simili a Wwoof, poi, ci sono altre realtà come WorkAway e HelpX, piattaforme che mettono in relazione chi cerca vitto e alloggio nel mondo e chi ha necessità di svolgere qualche piccolo lavoretto. Anche in questi casi alla base c’è la volontarietà e la gratuità, sebbene non sussista lo stesso legame col territorio.

Diversi i motivi che spingono a un’esperienza di questo tipo, come la volontà di rifuggire dalle destinazioni di massa (tanto che ora si parla addirittura di overcrowdig, letteralmente: sovrappopolamento) o lasciare una minore impronta ecologica anche quando si è in vacanza. D’altronde, come confermato dal nono Rapporto UniVerde 2019, “Gli Italiani, il turismo sostenibile e l’ecoturismo”, la sensibilità dei nostri connazionali per il tema crescerà fino a toccare il 68% del totale nei prossimi dieci anni (con un aumento del 5% rispetto alle scorse rilevazioni). A beneficiarne sarebbe poi il settore dell’agricoltura che, in Italia, conta per il 2,5% del Pil e, proprio attraverso il turismo sostenibile, potrebbe trovare una nuova leva per farsi ri-scoprire al di là dei circuiti enogastronomici (che comunque, abbinati al turismo, rappresentano un mercato da oltre 2,5 miliardi di euro).

Di |2024-07-15T10:05:42+01:00Febbraio 28th, 2020|Economia e Mercati, Lifestyle, MF|0 Commenti
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