Vita da nomadi digitali
Il mondo del lavoro stava cambiando già prima della pandemia, ma con l’avvento del virus ovunque è stato promosso lo smart working o, comunque, un modo di lavorare più flessibile.
Si è quindi affermato il concetto di flessibilità che comprende chi lavora due giorni in ufficio e tre a casa, chi ha ottenuto una settimana lavorativa da quattro giorni, chi lavora da remoto, e chi è diventato un vero nomade digitale, come Patrizio Ambrosetti che ne ha fatto la propria filosofia di vita: «La mia missione è quella di aiutare aziende globali a transitare verso il lavoro da remoto e supportare, allo stesso tempo, i dipendenti in questo cambiamento. Mi impegno quotidianamente perché i governi diventino più attrattivi per i nomadi digitali e creo contenuti video e podcast sui miei canali social (@rover_pat), partecipo come ospite a molti seminari ed eventi e sto lanciando un fondo di investimento (www.fundvega.com), basato in America che investirà appunto in startup per questa nuova generazione di lavoratori-viaggiatori».
Romano di nascita, è diventato presto cittadino del mondo. Dopo essersi trasferito a New York per continuare gli studi in Business & Management, ha poi «incontrato» un libro che l’ha fatto svoltare: è The 4-hour work week di Timothy Ferriss, che spiega come conciliare vita privata e lavoro. Intanto WeWork, l’allora piccola startup nota per aver rivoluzionato il concetto di coworking (spazi di lavoro condivisi, un modello alternativo al “classico” ufficio), lo assume come uno dei primi dipendenti internazionali e lo incarica di espandere il business in Europa e di lanciare nuovi mercati a livello globale. Dopo aver lavorato per Selina, occupandosi dell’apertura di nuovi mercati e spazi per il coliving (soluzioni di coabitazione tra più persone o più nuclei familiari con spazi privati e altri in condivisione) e coworking, nel 2020 si trasferisce a Barbados dove, dopo otto anni di viaggi no stop, stabilisce la sua base. Oggi investe in start up, dispensa consulenze e pianifica strategie per chiunque voglia aprire coworking, community di viaggiatori e piattaforme di vita comunitaria.
Qual è l’identikit di un nomade digitale?
Una prima importante distinzione da chiarire è la differenza tra nomade digitale e remote worker. Il nomade digitale è una persona che lavora nel digitale e che non ha una base fissa ma viaggia in tutto il mondo. Può essere un freelance, un imprenditore o un dipendente di un’azienda che offre massima flessibilità. I nomadi digitali vivono una vita minimale e non hanno grandi possedimenti. I beni più importanti per loro sono: il laptop, il passaporto e un bagaglio, che portano con sé, da un continente all’altro.
Il remote worker, invece, è una persona che ha la possibilità di lavorare da remoto per qualche mese all’anno, in un paese differente o in una città diversa da quelli in cui ha la residenza. Non ha la stessa flessibilità del nomade digitale ma deve sottostare alle policy dell’azienda e spesso mantiene i propri possedimenti. Un remote worker può trasformarsi però in nomade digitale.
Oggi come vive un nomade digitale?
Questo tipo di vita ti dà libertà e flessibilità assolute. Di solito quelli che scelgono questa strada sono attratti dallo sport, dall’esplorazione, sono persone curiose, che amano imparare nuove cose e condividerle con la “community” dei nomadi digitali. Forse, in noi nomadi, c’è anche la voglia di riprenderci qualcosa che abbiamo perso: oggi siamo sempre più abituati a stare chiusi in casa, in ufficio o nei centri commerciali. Qualcuno dà la colpa ai social network, qualcuno alla realtà virtuale o anche alla pandemia, ma la verità è che per troppo tempo non siamo usciti e adesso è come se fosse tornata la voglia di viaggiare e di spostarci. Le persone che ho incontrato qui a Barbados si sono messe a fare surf, quelle che ho visto in Thailandia si sono affacciate per la prima volta al mondo della spiritualità: come dire, ogni posto ti può dare qualcosa di speciale.
Ma la produttività nel lavoro non cambia lavorando da nomadi?
Assolutamente no, anzi. Anche perché in fondo non è nemmeno un concetto così nuovo, ormai è una modalità assestata: l’espressione “nomadi digitali” nasce nel 1997, è stata scritta per la prima volta nel libro Digital Nomad di Tsugio Makimoto e David Manners. Oggi per me i “nuovi ricchi” sono quelli che possono avere più flessibilità e i nomadi digitali, pur di garantirsela, lavorano molto perché vogliono potersi permettere i vari viaggi. E comunque parecchi studi dimostrano che, dando più flessibilità ai propri dipendenti, molte aziende hanno aumentato i ricavi del loro business.
Un esempio?
Airbnb: è un’azienda che ha 6.500 dipendenti che lavorano da remoto e il fatturato è aumentato a dismisura. Le persone che lavorano fuori dagli uffici sono persone che tendenzialmente si concentrano di più.
Come ci si prepara a questa vita così diversa da come ciascuno di noi è cresciuto?
Per ognuno è diverso, posso dire come è successo a me. Abitavo a New York, era il 2015, lavoravo da WeWork e il mio capo mi chiese di rientrare in Europa per implementare i coworking e spiegare la filosofia che ci stava dietro. Tutto è successo velocemente, in due giorni mi sono lasciato alle spalle la vita che avevo da due anni. Ma la verità è che ognuno si organizza a modo suo: ci sono persone che hanno aspettato di vendere la casa e sono partite all’avventura, altre che hanno fatto una prova per un mese, per vedere se poteva funzionare, altre che sono andate, tornate e riandate. Qualcuno è più conservativo, qualcuno più drastico.
Anche perché lasciare tutto può spaventare e far sorgere mille dubbi
Io stesso, all’inizio, mi chiedevo: “Come farò a trovare degli amici? Come saprò orientarmi nel nuovo posto? Come troverò una casa nella zona giusta?” Ma oggi ci sono aziende che si occupano proprio di creare il network prima che tu ti sia spostato, in modo da non farti trovare spaesato. Io, per esempio, sono advisor di Legends, un social network che mette in contatto persone che fanno gli stessi itinerari nomadi. Insomma, oggi ci si può organizzare con più facilità e, a onor del vero, alla fine ti accorgi che, per spostarti, ti basta poco, che non hai bisogno di portarti appresso chissà che cosa.
E i libri?
Usiamo quelli elettronici (ride). Diventando nomadi digitali ci si rende conto anche di quante cose e oggetti riteniamo indispensabili, ma non è così.
Essere nomade digitale sarà diverso se si è giovani single o adulti con famiglia al seguito…
È vero, però anche questo, oggi, è un passaggio che ha degli “agi” sconosciuti in passato: ci sono società che si occupano della scuola dei figli, di preparare alloggi accoglienti per le diverse tipologie di famiglie, di creare subito una community di genitori. Sto insistendo perché si lavori sui programmi scolastici globali, in modo che gli spostamenti non causino problemi di adattamento formativo. Adesso c’è anche l’homeschooling, ossia l’istruzione impartita dalla famiglia, magari mettendosi insieme ad altri nuclei, ma secondo me è giusto che i bimbi socializzino, che si trovino tra coetanei e avere un sistema di educazione globale sarebbe una soluzione. Ma anche per questo c’è chi dà una mano: Boundless life è un’azienda che permette proprio alle famiglie di fare una prova di tre mesi prima di fare scelte più radicali.
Che cosa potrebbero fare i governi per facilitare la vita dei nomadi digitali?
Oggi ci sono già 49 Paesi che offrono il visto per i nomadi digitali, il primo Paese è stato l’Estonia. Prima ogni tre mesi, alla scadenza del visto, bisognava scappare verso un altro Paese. Ora ci sono Paesi che ti accolgono: anziché entrare come turista, paghi una piccola fee e per un anno hai il permesso per restare. La Spagna addirittura lo offre per tre. Ovviamente, per ottenere questo visto, ci vogliono dei requisiti: devi dimostrare che hai un lavoro e che hai un contratto regolare. C’è, insomma, una selezione. Mi aspetto che i Paesi comincino a competere nell’offrire i migliori benefici, chi con tassazioni speciali, chi con garanzie sul sistema sanitario, chi facilitando l’apertura di start up. In ogni caso, ci si aspetta molto movimento.
Un curiosità, cosa risponde quando le chiedono che lavoro fa?
In realtà faccio tanti lavori diversi. Sono advisor per le aziende che offrono prodotti e servizi legati al coworking e al coliving. Aiuto anche molti CEO di grandi realtà quando, in fase di espansione, pensano appunto di sviluppare il lavoro da remoto per i loro dipendenti. Poi, sempre in questo campo, fondo start up e altre ne supporto: si pensa che nel 2025 ci saranno circa 100 milioni di nomadi digitali, e nel 2035 si arriverà al miliardo di persone, un nono della popolazione mondiale. Ecco, io investo nelle aziende che più si impegnano in questo senso: penso che sia dietro l’angolo l’affermazione della telemedicina. Ho poi una società con un ragazzo italiano, Andrea Melillo, con cui aiutiamo gli hotel in America latina a convertirsi in alberghi pensati per i nomadi digitali, con tutti i servizi necessari. In questo settore c’è tanto di cui occuparsi: faccio seminari e incontri, do consulenze per fare team building quando il team è dislocato nelle diverse parti del mondo. Anche in questa transizione verso il lavoro da remoto mantenere coesa la squadra è fondamentale: fa cultura aziendale, crea senso di appartenenza.
Se non si hanno conoscenze dirette, c’è un modo per avvicinarsi alla cultura dei nomadi digitali?
Oggi si può andare su YouTube o su Instagram e ci sono diverse persone che raccontano di sé e della propria esperienza. Ma io dico sempre che è come quando si scala l’Everest: prima di arrivare in cima, ci sono sei campi base e a ogni campo è bene fermarsi per acclimatarsi, aspettando il tempo giusto per procedere. Certo, lo sguardo è alla vetta, ma dobbiamo puntare al campo successivo, uno dopo l’altro. E comunque, anche dalla prima tappa, si ha una vista fantastica. Questo per dire che si può stare via anche solo un mese, provare e poi valutare. Io lo chiamo “taste of freedom”, un assaggio di libertà. Ecco, quella è l’ispirazione migliore. Inoltre ho fondato una start up, Nomag, che è una piattaforma che ha l’ambizione di insegnare ad essere nomadi digitali, o meglio ad educare ai valori dei nomadi digitali, aiutando anche aziende globali a transitare verso il lavoro da remoto e a supportare, allo stesso tempo, i dipendenti in questo cambiamento.
Lei è un nomade: viaggia ed è felice, le manca qualcosa di casa?
La pasta! Scherzi a parte, quando torno a Roma, amo perdermi nelle strade, cammino per ore. Anche se un giorno dovessi tornare a casa, di certo non la vivrei come una perdita, ma semmai come una vittoria: tornerei comunque con una maggiore consapevolezza, con uno sguardo differente e già questo sarebbe una grandissima conquista.