La ripresa della sharing economy è in linea con la transizione green
L’arrivo del Covid-19 sembrava l’inizio della fine. Molte aziende della sharing economy sono state date per morte con troppa fretta all’inizio del 2020. Non senza qualche valido argomento: sempre meno persone, si pensava, avrebbero scelto di condividere mezzi di trasporto, case, abiti, spazi di lavoro nel pieno di una pandemia in cui – soprattutto all’inizio – ogni persona e ogni superficie sembrava un potenziale vettore di contagio. Questi timori si sono rivelati fondati solo in parte. In realtà, non si è verificata la catastrofe che ci si sarebbe potuti aspettare.
Il calo e la ripresa
Prendiamo l’esempio del car sharing e del car pooling. L’unico momento di forte calo in Italia è stato registrato nei mesi di marzo e aprile 2020, ma in quella fase in tutto il Paese era in vigore uno stato di lockdown totale ed era ferma la mobilità in senso generale.
I dati diffusi della tech company Targa Telematics dicono che il car sharing a marzo 2020 è calato del 50% rispetto al mese precedente. Poi ad aprile un altro -40% rispetto a marzo e addirittura quasi un -70% rispetto a febbraio. Ma le voci davvero negative finiscono qui, e possono essere paragonabili a quelle di tanti altri settori in difficoltà in quei mesi di lockdown molto rigido.
In Italia, come in tanti altri Paesi, la mobilità condivisa è ripartita (quasi) a pieno regime poco più tardi. Nicolas Brusson, numero uno di BlaBlaCar, azienda che opera in 22 Paesi, sostiene che la crisi economica porterà – domani ancor più di oggi – a una maggiore richiesta di viaggi in auto a basso costo. Immaginando quindi un rimbalzo molto consistente dell’economia della condivisione.
Condivisione e sostenibilità
In generale, se la sharing economy ha resistito, è soprattutto perché molte aziende presentano i tratti richiesti dal mercato moderno. Soprattutto per quel che riguarda la sostenibilità e il rispetto dell’ambiente.
I sostenitori della sharing economy ripetono sempre che la condivisione è un modo più sostenibile di vivere e gestire un’impresa: permette di produrre meno beni, prevede un’estensione del ciclo di vita dei prodotti, il riciclo e il riuso. Tutto ciò massimizza l’utilizzo dei beni di consumo, riduce la domanda di produzione di nuovi prodotti e lo spreco di risorse, permette un uso più efficiente di quelle già utilizzate.
La conseguenza è che l’economia della condivisione si rivela un mercato sostenibile quasi per definizione.
Nel caso di car pooling e car sharing – i due termini non sono sinonimi: nel primo caso un privato condivide la propria auto con altri viaggiatori, mentre nel secondo c’è un noleggio a breve termine del veicolo – i vantaggi sono rappresentati dalla riduzione delle emissioni di CO2, dall’ottimizzazione delle risorse e delle infrastrutture, dal risparmio economico pro-capite.
Ma la sharing economy non riguarda solo i trasporti. La piattaforma turistica Airbnb, leader nel segmento dell’accommodation sharing, nel 2014 aveva commissionato uno studio per dimostrare i benefici sull’ambiente del suo modello di business.
L’analisi condotta dal Cleantech Group mostrava che i soggiorni in sharing hanno generato un consumo energetico inferiore, il 63% in meno negli Stati Uniti e il 78% in meno in Europa, rispetto a quello in hotel o strutture alberghiere. Ma anche uno spreco minore delle risorse idriche, il 12% in meno negli Stati Uniti e il 48% in meno in Europa. Questi fattori hanno contribuito a una maggiore sensibilizzazione sulle tematiche ambientali nella maggior parte dei fruitori.
Discorso simile anche per il fashion sharing. Le difficoltà del settore della moda a reinventarsi in senso sostenibile sono ormai note, tra materiali inquinanti, sovrapproduzione e una catena di approvvigionamento da aggiornare.
Secondo il rapporto del 2018, realizzato dalla Commissione economica per l’Europa delle Nazioni Unite, l’industria della moda produce il 20% dello spreco idrico globale. La produzione di una maglietta di cotone richiede 2.700 litri d’acqua, la stessa quantità che una persona beve in due anni e mezzo. Il 10% delle emissioni mondiali di carbonio sono prodotte dall’industria dell’abbigliamento e l’85% dei tessuti vengono portati in discarica.
Ogni anno vengono inceneriti 12 milioni di indumenti, le cui emissioni di CO2 contribuiscono all’inquinamento globale. Dal 1960 al 2015 l’aumento dei rifiuti tessili è stato dell’811% e si stima che ogni persona, ogni anno, nel mondo, consumi 34 vestiti buttandone via 14 chili.
Il fashion sharing allora può diventare una soluzione per tutto questo. Un nuovo modo di concepire la moda ha un impatto positivo sull’ambiente poiché consente di ridurre i volumi di produzione dell’industria tessile: prolunga la durata di vita di molti prodotti grazie ai mercati dell’usato e aumentando l’intensità dell’impiego di capi di abbigliamento che inizialmente erano utilizzati solo dai loro primi proprietari.
Che si tratti di condividere l’auto, i vestiti o uno spazio fisico, la sharing economy ha un modello di business che sta incentivando lo sviluppo dell’economia circolare, mettendo in contatto i proprietari dei prodotti con individui o organizzazioni interessati ad usarli.
In questo senso, l’economia della condivisione è un’opportunità dal punto di vista ambientale, sociale ed economico. Ed è un passo importante verso l’idea di città sostenibile in cui vorremmo e dovremmo vivere. La pandemia ha reso ancora più evidente questa necessità.