L’alternanza scuola-lavoro? Chiamiamola alleanza


È deciso: aver svolto un percorso di alternanza scuola-lavoro non sarà più necessario per l’ammissione all'esame di Stato. In arrivo ci sono ulteriori modifiche, a cominciare dalla riduzione del monte ore minimo obbligatorio, differente per gli istituti professionali, i tecnici e i licei. Sono allo studio anche apposite linee guida, con l’obiettivo di garantire a tutti gli studenti un’alternanza di qualità, caratterizzata da un forte valore orientativo, strettamente coerente con il percorso di studi scelto.
Il ministro Marco Bussetti, come previsto dal contratto di Governo, sta mettendo mano all’alternanza scuola-lavoro, che nello scorso anno scolastico ha coinvolto oltre un milione e mezzo di studenti del triennio delle superiori. L’alternanza scuola-lavoro è la misura-simbolo dell’ultima riforma della scuola (la legge 107/2015, più nota come “la Buona Scuola"), che la definisce come una metodologia didattica: significa ripensare il "fare scuola" passando da un apprendimento basato sulle conoscenze (sapere) a uno basato sulle competenze (sapere, saper fare, saper essere).
Sulla carta, qualcosa di cruciale per il futuro dei nostri ragazzi. Allora perché rinunciarvi? L’esperienza è andata tanto male? L’alternanza scuola-lavoro è – politica a parte – qualcosa da rivedere, da qualificare o da superare? Lo abbiamo chiesto a Giovanni Biondi, presidente dell’Istituto Nazionale di Documentazione, Innovazione e Ricerca Educativa (Indire).

Il Governo Conte ha deciso di cambiare strada sull’alternanza scuola-lavoro. Cambiare per andare dove, secondo lei?

Credo che il ministro interverrà sull’Alternanza scuola-lavoro sulla base di quello che è accaduto negli anni scorsi, sulle oggettive difficoltà riscontrate dalle scuole. Tra l’altro sarebbe meglio cambiarle nome.

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Cioè?

Occorre sottolineare di più l’interazione che deve esserci fra scuola e lavoro, è questo l’elemento caratterizzante. Il termine “alternanza” invece rimanda al sistema duale tedesco, che prevede periodi in aula e periodi in azienda. Il nostro modello non è questo, non è fare un po’ una cosa e un po’ l’altra: il duale tedesco si avvicina molto all’apprendistato, i ragazzi vengono pagati, l’alternanza italiana è del tutto diversa. L’idea è quella di far parlare la scuola con il mondo del lavoro, certi che questo sia un valore in termini formativi. Far parlare la scuola con il mondo del lavoro e far fare ai ragzzi un’esperienza diretta nel mondo del lavoro: queste due cose devono rimanere.

Anche il ministro Bussetti si è detto «convinto che i termini “scuola” e “lavoro” non debbano essere intesi in maniera antitetica ma come sintesi naturale». L’ex ministro Profumo parla di alleanza scuola-lavoro. È questa la direzione?

Sono d’accordo, alleanza scuola-lavoro è un nome migliore. Comunque il tema c’è. Non tanto di far capire cosa sia l’alternanza ma proprio di definirla.

Sarebbe meglio cambiare nome all'alternanza, sottolineando l’interazione che fra scuola e lavoro. Alleanza scuola-lavoro rende meglio l'idea.

Giovanni Biondi, presidente di Indire

Indire ha fatto un monitoraggio qualitativo dell’alternanza scuola-lavoro finora svolta. Cosa avete rilevato?

Un quadro che più o meno ci si poteva aspettare. Al Sud non c’è un tessuto produttivo ricco che permetta di accogliere gli studenti e di conseguenza l’alternanza scuola-lavoro spesso è diventata virtuale, fatta sostanzialmente al computer, oppure è stata declinata nella modalità dell’impresa simulata. Io non ho nulla contro il virtuale, ma andare in azienda e respirarne l’aria è una cosa diversa. Con questo non voglio dire che al Sud non ci siano esperienze di grande livello, non è così. Una seconda osservazione riguarda i licei, dove effettivamente l’alternanza è risultata impegnativa e soprattutto senza reale valore aggiunto per gli studenti: i licei diversamente dagli istituti professionali e dai tecnici avevano meno relazioni con le aziende del territorio e non sapendo dove mandare i ragazzi, pur di assolvere all’obbligo, hanno finito per mandarli negli uffici delle università o a fare i custodi nelle sale dei musei… Tutte esperienze utili alla crescita, non è questo il punto, ma è difficile affermare che queste esperienze hanno dato un valore aggiunto al curricolo dello studente, non è che di per sé la connessione liceo/museo sia vincente. Quello che voglio dire è che in senso lato ogni esperienza serve, anche incartare panini, ma non tutto impatta sul curriculum: non si capisce allora perché esperienze del genere debbano passare dalla scuola.

Quindi l’obbligatorietà dell'alternanza secondo lei va messa in discussione?

L’obbligatorietà ha costretto alcune scuole a ragionare in termini di dovere più che di opportunità per gli studenti. La mia idea invece è che le scuole debbano sviluppare al meglio la loro autonomia. Deve essere la scuola a valutare dove ci sono le condizioni adatte per realizzare buoni percorsi di alternanza e una delle condizione per fare percorsi utili è che ci sia una buona co-progettazione. La co-progettazione però è difficile e implica un grosso carico amministrativo per le scuole, occorre sburocratizzare e gli insegnanti devono avere più libertà, senza regole calate dall’alto. Soprattutto – torno a dire – è la scuola che deve fare una valutazione: se in questo territorio, in questo momento, ci sono le condizioni per fare 50 buoni percorsi, perché farne per forza 200?

È la scuola, nella sua autonomia, a dover valutare le condizioni per percorsi di alternanza utili. Se si possono fare 50 percorsi, perché farne 200?

Giovanni Biondi, presidente di Indire

Però se crediamo che l’alternanza scuola-lavoro sia un'opportunità importante, togliere l’obbligatorietà significa penalizzare una fetta di studenti…

Vediamola dall’altra parte: farla per forza invece che cosa provoca? Spesso una perdita di tempo. Siamo tutti convinti che l’alternanza fatta bene sia arricchente e positiva, ma la scuola è la prima che non priverebbe mai i suoi studenti di un’esperienza che li arricchisce. Se domani l’alternanza scuola-lavoro diventasse opzionale, lei pensa che le tante esperienze d’eccellenza si interromperebbero? No, continuerebbero. Perderemmo soltanto le esperienze fatte per obbligo.

Quindi lei propone un’alternanza che sia solo “suggerita” e non più obbligatoria?

Sì, come indicazione, come suggerimento, ma non come obbligo. Oppure che l’obbligo resti ma la scuola possa rinunciare a farla, documentando il perché. E poi usciamo dall’idea di dover per forza mettere un voto, perché se non c’è un voto quella materia non conta: è una visione ottocentesca, che ci porta ad avere curricoli enciclopedici e studenti con le teste piene, il contrario del crescere persone con teste ben fatte.

Se vogliamo che tra scuole e imprese ci sia un'alleanza, dobbiamo dare valore alle imprese, riconoscendo l'investimento che esse fanno.

Giovanni Biondi, presidente di Indire

L’Alternanza scuola-lavoro di cosa ha bisogno, oltre a questa manutenzione normativa?

Soprattutto ha bisogno di crescere, perché oggi è ancora un’esperienza troppo giovane. Ha bisogno di un po’ di tempo, di non essere cancellata, affinché le scuole e le aziende capiscano che è un’opportunità. Se però vogliamo che tra scuole e imprese ci sia una alleanza, come dicevamo all’inizio, dobbiamo dare valore alle imprese: la piccola e media impresa fa un investimento quando accoglie un giovane in alternanza, affiancandogli un tutor formato, questo bisogna riconoscerlo in termini di defiscalizzazione o in altro modo. Altrimenti l’alternanza la faranno solo le grandi imprese e le multinazionali, ma la maggior parte del nostro tessuto imprenditoriale, nei territori, non ce la farà.

Di |2024-07-15T10:05:12+01:00Ottobre 12th, 2018|Formazione, MF|0 Commenti