Amazon, Uber, Deliveroo: non chiamiamoli lavoretti


Li chiamavano “lavoretti”, quelli che uno fa per arrotondare un po’. Poi rider, driver e fattorini si sono messi a scioperare e abbiamo scoperto un mercato del lavoro vero e proprio, quello della platform o gig economy, fatto di lavoratori in carne e ossa in cerca di una nuova regolamentazione e nuovi diritti. Ora anche i sindacati se ne sono accorti e chiedono di contrattare. «È la solita conflittualità dei rapporti di lavoro», spiega Valerio De Stefano, docente di Diritto del lavoro all’Università di Leuven, in Belgio, ed esperto in “Non-Standard Forms of Employment and Gig-Economy” dell’Ilo di Ginevra. «Quello che c’è di nuovo è che ce ne stiamo accorgendo anche come consumatori. Queste persone lavorano e lavorando hanno dei bisogni. È che non ce ne siamo accorti fin quando non si sono messi a protestare, finché non hanno detto “il fatto che noi forniamo servizi molto utili per i consumatori viene fatto molto spesso a scapito dei lavoratori”».

De Stefano, quindi sono lavori o lavoretti?
Lavoretto non vuol dire niente. Esiste il lavoro e il lavoro va protetto per qualsiasi motivo lo si faccia. Se poi bisogna andare a vedere se questo tipo di attività sia centrale nella vita di chi la svolge o se sia un modo di arrotondare, questo è un altro discorso. Oggi i lavoratori coinvolti nell’economia delle piattaforme lo fanno per mestiere e lo fanno per procurarsi una parte essenziale del proprio reddito. Non conta il motivo che ti spinge ad andare a lavorare. Che, in questo caso spesso è la mancanza di alternativa, di altri tipi di lavori meglio remunerati o più stabili.

Tutto ruota attorno alle piattaforme. La presenza della tecnologia ha modificato i rapporti di lavoro?
La tecnologia è solo uno strumento. Che permette alle piattaforme e ai datori di lavoro per prima cosa di avere un controllo immediato sulla domanda dei servizi che mettono a disposizione e sull’offerta di lavoro, quindi di accettare lavoro solo quando ce ne è bisogno. Questo significa che però per tutto il tempo in cui la domanda di beni o servizi cala, il rischio di questo calo che prima era assorbito dall’impresa viene in realtà addossato al lavoratore. Se non ci sono consegne da fare o persone da portare in giro con la macchina, il lavoratore non riceve lavoro. Non solo. La tecnologia consente poi anche di monitorare secondo per secondo la posizione del lavoratore, la velocità nel compiere una determinata mansione, quindi aumenta il potere di controllo del datore di lavoro sul lavoratore stesso. La tecnologia quindi non cambia tanto la struttura del rapporto di lavoro, ma di sicuro consente alla piattaforma di accendere e spegnere il rapporto di lavoro solo nel momento in cui c’è bisogno del lavoratore.

Per tutto il tempo in cui la domanda di beni o servizi cala, il rischio di questo calo che prima era assorbito dall’impresa viene in realtà addossato al lavoratore.

Altro dilemma: sono lavori autonomi o subordinati?
Ogni piattaforma è un caso a sé, ma molto spesso dietro questi modelli ci sono forme di gestione del personale che sfociano in qualcosa di molto simile al tradizionale lavoro subordinato. Non è che uno decide quando lavorare. Si dà la propria disponibilità in anticipo e sulla base di questa vengono assegnati turni. Questo mito della flessibilità per cui si può lavorare quando si vuole va rivisto in realtà da piattaforma a piattaforma. Una volta che si fa il login alla piattaforma non è che poi il lavoro si svolge secondo quello che noi concepiamo come lavoro autonomo: il lavoro viene monitorato secondo per secondo, i prezzi vengono fissati dalle piattaforme, esiste un sistema di rating che tiene conto anche del voto che il consumatore dà alla fine della prestazione per valutare il servizio, vengono fatte valutazioni secondo sistemi algoritmici per capire se la prestazione è andata bene oppure no. Se la prestazione non è andata bene secondo i canoni dell’algoritmo, il lavoratore viene penalizzato, espulso dalla piattaforma, oppure possono essere dati turni meno favorevoli o gli viene assegnato meno lavoro. Il punto quindi non è solo quando uno decide di lavorare o no, ma una volta che si decide di andare a lavorare bisogna capire come si viene controllati.

Il lavoro è gestito dagli algoritmi, quindi, che valutano anche le performance dei lavoratori. Verremo prima o poi licenziati da un algoritmo?
Il datore di lavoro può basarsi su quello che ricava dagli algoritmi. È ovvio che non bisogna nasconderci dietro un dito. L’algoritmo non licenzia nessuno, è il datore di lavoro che licenzia, che prende la decisione sulla base di una possibile soluzione offerta dall’algoritmo. Gli algoritmi vengono programmati in una determinata maniera, non sono entità magiche che funzionano da sole. Quello che bisogna fare è capire innanzitutto come vengono programmati, che tipo di valori usano per valutare le prestazioni e poi va capito come vengono prese le decisioni aziendali suggerite dagli algoritmi. E in questo si deve e si può chiedere più trasparenza e fare anche contrattazione per domandare che le decisioni prese sulla base degli algoritmi rispettino dei criteri di sostenibilità.

In Gran Bretagna Uber proprio su questo ha subito più di una sconfitta in tribunale. Quali sono le novità?
I driver di Uber in Gran Bretagna sono stati qualificati non come lavoratori subordinati ma come “worker”, che nel Regno Unito è una categoria intermedia tra autonomia e subordinazione che dà dirittto ad alcune protezioni del diritto del lavoro, come salario minimo, tutela sull’orario di lavoro, pagamento ferie ecc. Sono stati qualificati come lavoratori invece che come piccole aziende, lavoratori che hanno diritto ad alcune fondamentali protezioni lavoristiche.

Che tipo di conflitto è questo tra lavoratori della platform economy e le aziende?
È la solita conflittualità dei rapporti di lavoro, che c’è da sempre. Quello che c’è di nuovo è che ce ne stiamo accorgendo anche come consumatori. Il fatto che possiamo ordinare una cosa comodamente seduti sul divano e qualcuno ce la porta è fantastico. Il punto è che come consumatori rischiamo di commettere l’errore di pensare che tutto questo servizio avvenga digitalmente e che dei robot portino il cibo a casa o degli algoritmi ci consegnino il pacco. In realtà la tecnologia dà solo la possibilità di accedere a determinati servizi, che però poi vengono svolti dalle persone. Queste persone lavorano e lavorando hanno dei bisogni. È che non ce ne siamo accorti fin quando non si sono messi a protestare, finché i lavoratori hanno detto: “Il fatto che noi forniamo servizi molto utili per i consumatori viene fatto molto spesso a scapito dei lavoratori”. E quindi chiedono di più, vogliono avere qualcosa in più rispetto a quello che viene loro riconosciuto, scioperano e chiedono di contrattare ecc. È tutto per il momento nella normale conflittualità dei rapporti di lavoro che c’è sempre e ci sarà sempre. Fin quando c’è un sistema per cui c‘è capitale da una parte e lavoro dall’altra, c’è un conflitto tra capitale e lavoro. Ci sono persone in carne e ossa che rivendicano il diritto di essere trattati meglio, è normalissimo. È sempre stato così e sarà sempre così almeno fino a quando non verremo tutti sostituiti dai robot, cosa che probabilmente non avverrà mai.

In realtà la tecnologia dà solo la possibilità di accedere a determinati servizi, che però poi vengono svolti dalle persone.

A che punto è la discussione in italia sulla regolamentazione di questo settore?
La discussione è solo agli inizi. Per il momento ci siamo accorti che ci sono le persone dietro le consegne di cibo, che non è un computer a occuparsene. Da altre parti se ne sono accorti un po’ prima, ma meglio tardi che mai. Per il momento c’è la consapevolezza che bisogna fare qualcosa, che anche il sindacato deve essere coinvolto. E c’è la consapevolezza dei lavoratori del fatto che l’unione fa la forza e questo li distingue molto dal vecchio popolo delle partite Iva che invece non aveva questa propensione all’auto-organizzazione e ad esercitare un conflitto industriale nei confronti dei propri committenti. Più avanti si va, più sarà probabile che gli attori sindacali tradizionali inizino a occuparsi della cosa. Il nuovo contratto nazionale della logistica, ad esempio, ha incluso tra le proprie qualificazioni contrattuali anche la figura del rider.

Spesso si dice che regolamentando questo settore si richia di snaturarlo.
Può essere un fattore di efficientamento il fatto di non dover ricorrere più a manodopera sottopagata. Si deve combattere la retorica del “è tutto nuovo non può essere regolamentato”. Eventualmente si può discutere se la regolamentazione che abbiamo debba essere più o meno ritoccata per far fronte a delle criticità. Né è giusto dire che certi tipi di business possono funzionare solamente se sono al di fuori della legge. Se strutturalmente per funzionare devono comportare condizioni lavoro sotto standard e al di fuori della regolamentazione, c’è un problema e il problema è del business non del regolatore.

Ma che approccio hanno queste aziende nei confronti dei sindacati?
Per il momento le aziende hanno detto che si vogliono mettere a dialogare, ma in determinati casi hanno detto che vogliono dialogare individualmente con i singoli lavoratori, non con il sindacato. Ma il dialogo lo si fa con gli agenti collettivi, non con il singolo lavoratore. Se no si ritorna da capo: non ci si può scegliere un interlocutore negoziale, si deve contrattare con le organizzazioni collettive alle quali i lavoratori vogliono dare mandato per rappresentarli.

Quali sono le previsioni per il futuro di questi lavoratori?
Nel futuro ci sarà un maggiore coinvolgimento degli attori colelttivi nella regolamentazione di queste forme di lavoro. Se le proteste continueranno e se sono in grado di creare un disagio al business in maniera permanente, anche i datori di lavoro si siederanno al tavolo e negozieranno condizioni di lavoro migliori. Questo è quello che è sempre successo e non camabierà. Non c’è mai la bacchetta magica, ogni volta bisogna ricontrattare e passare dalla negoziazione delle condizioni di lavoro. Succede in questo settore come in qualsiasi altro settore.

Di |2024-07-15T10:04:50+01:00Gennaio 15th, 2018|Economia e Mercati, futuro del lavoro, MF|0 Commenti