Cercasi valori, non nuove idee: così le aziende italiane torneranno a volare
Può sembrare un paradosso, ma se cerchiamo un’innovazione radicale, l’ultima cosa di cui abbiamo bisogno è un’idea in più. Brainstorming, focus group, analisi dei big data non servono a nulla, quindi. O meglio: servono a migliorare qualcosa che già esiste o a risolvere dei problemi già individuati. O, peggio: ai manager per coprirsi le spalle in caso di insuccesso.
Quello che è indispensabile come l’aria, ma raro come un diamante rosa, sono i valori da cui partire. Valori che, con buona pace dei manuali di management usciti negli ultimi tre decenni, non possono arrivare da stimoli esterni ma devono derivare da una nostra personale “ricerca di senso". In questo le aziende italiane, strano ma vero, sono più avvantaggiate di quelle anglosassoni. Tutto questo è il nucleo degli ultimi ragionamenti di Roberto Verganti, docente del Dipartimento di Ingegneria Gestionale del Politecnico di Milano e consulente aziendale. Li ha riportati nel nuovo volume “Overcrowded – Designing Meaningful Products in a World Awash with Ideas” (traducibile come “Stracarichi – Progettare prodotti con un significato in un mondo inondato di idee”), edito dalla Mit Press, la casa editrice del Massachusetts Institute of Technology.
[legacy-picture caption=”Roberto Verganti” image=”17ea8e19-95ac-4632-8562-c68e0a366346″ align=””]Il punto di partenza, spiega Verganti, non è essere iconoclasti contro tutto quello che è stato prodotto negli ultimi anni. Piuttosto, è una presa di coscienza: «Ci siamo illusi che producendo tante nuove idee saremmo arrivati a risolvere i problemi dell’innovazione – dice Verganti -. In realtà, nel momento in cui abbiamo potenziato la nostra capacità di produrre nuove idee si è aperto un problema nuovo: come facciamo a estrarre valore da queste idee. Ossia: come facciamo a trovare la direzione giusta».
In dieci anni di consulenza presso le aziende (tra cui Procter & Gamble, Samsung, Fca e Gucci), aggiunge, nessuna chiedeva nuove idee: «È un tema che spesso si sottovaluta. Si pensa che la creatività sia positiva di per sé. Invece non è così – dice il docente del Politecnico -. Delle migliaia di idee che ci sono sottoposte non tutte sono ugualmente positive. Per selezionarle c’è bisogno di una scelta di valori. Il problema è questi valori non sono misurabili lungo una scala. Anzi, in questo momento, il vero e principale problema è che trovare dei valori è difficilissimo. C’è una disperata sete di significato e di senso, non solo nel business».
È come se cercassimo di lobomizzare i nostri studenti. Forniamo loro strumenti anche molto efficaci. Ma il valore e il senso delle cose è qualcosa di cui non si discute mai. Invece in questo momento per fare business la chiave di volta è proprio capire che cosa abbia senso.
Queste situazioni di contrasto, spiega il docente del Politecnico, derivano anche da una letteratura di management, portata avanti anche nelle business school, che ignorano completamente il campo dei valori. «È come se cercassimo di lobomizzare i nostri studenti – commenta -. Forniamo loro strumenti anche molto efficaci. Ma il valore e il senso delle cose è qualcosa di cui non si discute mai. Invece in questo momento per fare business la chiave di volta è proprio capire che cosa abbia senso».
Gli stessi manager, di fronte al rischio di un’innovazione, spesso si affidano a focus group e a ricerche di mercato che coprono loro le spalle. «Sono tutti trucchi per allontanarsi dalle proprie responsabilità. I grandi leader invece hanno una visione e la portano avanti. Può anche essere una visione sbagliata, ma è meglio di non avere una visione». Né del resto una risposta può arrivare dai Big Data. «Purtroppo o per fortuna i numeri non ci danno il significato delle cose. Ci possono dare delle argomentazioni a favore o contro, ma non ci danno il senso critico. Anzi, fenomeni come le “filter bubble” che si creano su Facebook suggeriscono che gli analytics ci portano in direzione opposta al senso critico».
La buona notizia è che secondo Verganti le aziende italiane, pur con tutte le difficoltà sul fronte della tecnologia e della produttività, sono le più portate a ricercare il senso profondo delle cose. «Dico spesso che Apple è un’azienda italiana con sede in California», dice il docente del Politecnico. «Nelle ricerche precedenti ho studiato come lavorano imprenditori come Ernesto Gismondi, il fondatore di Artemide, e Alberto Alessi. Gismondi diceva “io non ascolto il mercato, io faccio le proposte alla gente”. E Alessi ha fatto produrre uno spremiagrumi a forma di ottovolante: non era qualcosa di immaginabile, ma è stato un prodotto di cui le persone si sono innamorate». Perché ci sarebbe questo vantaggio delle aziende italiane? «Sono convinto che sia legato agli insegnamenti del nostro sistema scolastico, che è molto intriso di materie umanistiche», risponde l’ingegner Verganti. «Noi ogni volta che guardiamo un oggetto siamo portati alla ricerca del perché».