Con la cultura si mangia: così le imprese creative e culturali possono creare lavoro


Di cultura si può mangiare. A dirlo sono le storie di successo delle imprese culturali e creative. Un settore produttivo che occupa quasi 1,5 milioni di persone in oltre 400.000 imprese, per un valore aggiunto totale che si aggira intorno agli 89,9 miliardi di euro. Fra queste realtà ci sono quelle premiate lo scorso luglio durante la Conferenza nazionale dell’impresa culturale, svoltasi a L’Aquila. Come Operazione Robin Hood, ideata dal Teatro di Bari, un progetto ideato per consentire la partecipazione culturale a bambini (ne sono stati raggiunti 1000) e famiglie che per difficoltà economiche, sociali o geografiche sono normalmente esclusi dalla fruizione culturale. Oppure Postmodernissimo, il primo cinema di comunità in Italia realizzato a Perugia prendendo in gestione un cinema storico nel centro, chiuso dal 2000. Per non parlare del Museo egizio di Torino, un’istituzione italiana, che grazie alla propria esperienza è riuscito a raggiungere il totale autofinanziamento passando da una revisione di spazi, luoghi e funzioni del sito museale. Successi che raccontano la bontà di un’impresa.

Ma cos’è una impresa culturale e creativa (Icc)? Per capirlo basta fare riferimento a due testi base. Il primo è il Libro bianco sulla creatività (2009) secondo cui si definiscono imprese culturali tutte quelle iniziative che hanno a che fare con il patrimonio storico e artistico; l’industria dei contenuti, dell'informazione e delle comunicazioni; e la cultura materiale come moda e design. La seconda definizione arriva dalla ricerca Ervet del 2012 realizzata in Emilia Romagna. Qui si legge che per essere definita culturale e creativa, un’impresa deve condividere tre fattori: l'utilizzo di saperi culturali (nuovi e tradizionali) e creativi quale input per la produzione; la produzione di senso e valore estetico, in aggiunta alla funzione del prodotto o servizio; l'accezione “artigiana” della produzione, volta all'unicità del prodotto finale.

Da qui nascono un serie di esperienze imprenditoriali che sfruttano le enormi risorse artistiche, museali, architettoniche e paesaggistiche del nostro Paese.

Da qui nascono un serie di esperienze imprenditoriali che sfruttano le enormi risorse artistiche, museali, architettoniche e paesaggistiche del nostro Paese. Una realtà che conta 4.158 musei, 282 aree archeologiche, 536 monumenti, 13.888 biblioteche, 871 aree naturali protette, 2.500 siti naturali. In tutti questi casi lo schema è sempre lo stesso: da un lato l’impresa culturale, molto spesso pubblica, che gestisce un patrimonio esistente. Dall’altro l’impresa creativa che sta sul mercato e utilizza gli input creativi per realizzare prodotti complementari. Insieme formano una filiera che va dalla fondazione che gestisce una villa, alla start-up che si occupa di gamification, passando per una coopertiva teatrale e un'associazione che ha un bene in convenzione dal Comune. Il tutto per attrarre un bacino di circa 115 milioni di visitatori all’anno.

Uno dei migliori esempi di impresa culturale e creativa lo racconta il direttore di Federculture Claudio Bocci: «Quando Paolo Giulierini, uno dei famosi venti direttori di museo nominati con la legge Franceschini, è arrivato al Museo Archeologico Nazionale di Napoli, ha promosso un piano strategico tra i cui obiettivi primari c’era quello di aumentare il pubblico dei nativi digitali. Per farlo, ha contattato Fabio Viola, istituzione globale tra i gamification designer, ha creato un videogioco, il primo prodotto e distribuito direttamente da un museo». Il titolo, Father and son, è stato scaricato oltre 400 mila volte contribuendo a far aumentare la quota di giovani visitatori. Non fosse altro che per risolvere l’enigma che veniva proposto ai giocatori attraverso le informazioni che si possono recuperare solo al museo.

In attesa di ottenere un riconoscimento ufficiale dalla Commissione Cultura della Camera, che sta portando avanti una propria proposta di legge, gli operatori di settore fanno sentire la loro voce. Il punto principale è quello economico-fiscale, a partire dall’estensione dell’Art-Bonus che, attualmente, non considera le agevolazioni sul contributo liberale dato a soggetti privati con finalità pubblica (così da aumentare le capacità di fundraising). Il passo successivo riguarda un’Iva agevolata al 4-10%. L’eliminazione del pagamento dell’Imu e di altri tributi locali come la Tari. Infine, rendere più facili da un punto di vista burocratico le sponsorizzazioni (peraltro già totalmente deducibili).

Di |2024-07-15T10:04:39+01:00Settembre 6th, 2017|Innovazione, MF|0 Commenti
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