Così cambia la cultura del superlavoro in Cina
Stop alla cultura del superlavoro. Anche in Cina si sta facendo strada un movimento che chiede orari di lavoro più sostenibili. E come molte delle proteste, nel Paese del Dragone questa spinta sta partendo dalla Rete.
Con un post sulla piattaforma per informatici GitHub, quattro studenti hanno lanciato a ottobre la campagna “Worker Lives Matter”, poi mutato in “Worker time”, per ragioni di assonanza con lo slogan della mobilitazione americana. E il risultato è stato un successo: pochi giorni dopo il lancio, oltre 3.500 impiegati avevano già risposto all’invito e indicato, sul foglio Excel pubblicato, dettagli su durata del turno di lavoro e tempo concesso per i pasti, menzionando oltre 1.300 aziende, la maggior parte operanti nel settore tech, ma anche imprese petrolifere, immobiliari e finanziarie.
L’obiettivo del movimento è promuovere una routine lavorativa di otto ore al giorno per cinque giorni a settimana, in conformità con la legge.
I dati raccolti evidenziano come, nelle grandi società più citate, si superano le dieci ore al giorno di lavoro, finendo spesso il turno dopo le dieci di sera. È la famigerata pratica del 996: si lavora dalle nove del mattino alle nove di sera per sei giorni alla settimana. Una pratica che adesso però sembra avere le ore contate di fronte all’ostacolo più grande: il Partito Comunista Cinese.
La pratica del 996
Lavorare oltre orario è pratica comune nell’ex Celeste Impero, così come in altri Paesi dell’Est asiatico. C’è però una sola, grande, differenza: se in Giappone, per esempio, lavorare oltre l’orario stabilito è spesso deciso in autonomia dal lavoratore per portare a termine un progetto e aumentare i propri guadagni, in Cina gli straordinari non sono quasi mai pagati.
A volte, poi, fare lo straordinario diventa quasi una costrizione: come racconta il Korea Times, all’interno di un colosso nel settore della tecnologia informatica con sede nella regione dello Shandong, nella Cina orientale, i dipendenti erano costretti a superare gli orari di lavoro a causa della pressione imposta dall’azienda. All’interno dell’impresa erano infatti presenti cartelloni motivazionali dal fare minaccioso: «Se sei libero, vai a fare gli straordinari. Vai a finire i nostri compiti incompiuti», «Tu fai gli straordinari e io faccio gli straordinari, quindi chi non li fa non può evitare di farli», oppure «Se fai gli straordinari di giorno non ti appisoli, se li fai di sera non ti addormenti».
E non sono servite a nulla né leggi come quella che limita le ore di lavoro settimanali a 44 e quelle giornaliere a otto, né la sentenza con cui quest’estate la Corte Suprema del Popolo ha sancito l’invalidità dei contratti di lavoro che impongono il 996.
La pratica, risalente al periodo di Deng Xiaoping, ha portato la Cina ad essere annoverata tra i grandi Paesi del mondo, ma ha anche causato enormi disparità in termini di reddito, corruzione e inquinamento.
Le mosse del Partito Comunista
I tempi, però, ora sembrano essere decisamente cambiati. Il presidente Xi Jinping e il Partito Comunista sembrano decisi a contrastare in maniera definitiva questa pratica alla quale il Paese deve però tutto.
Se la Cina si trova dov’è è grazie alla diffusione di una cultura che ha eretto il superlavoro e il sacrificio personale a vero e proprio valore morale. Inoltre, in un Paese con una popolazione che supera il miliardo, ciascun cittadino viene educato per saper reggere il peso della competizione: per poter emergere, avere opportunità di carriera e assicurarsi un discreto stipendio bisogna essere i migliori e quindi studiare e lavorare sempre più degli altri.
Per questo è molto difficile sradicare la prassi del 996. Il Partito però teme che alla lunga la pratica possa avere effetti collaterali sul morale della popolazione e arrivare a scatenare anche una rivolta. Per questa ragione, Xi Jinping ha lanciato lo slogan “Prosperità comune”. Nelle intenzioni del leader, questo significa portare la Cina verso una condizione di uguaglianza condivisa e quindi a una redistribuzione della ricchezza, ma nei fatti l’obiettivo della prosperità comune si traduce in una stretta sulle maggiori aziende cinesi che limiti la loro autonomia decisionale e le riporti entro i confini dell’autorità del Partito.
Ora si vorrebbe spingere per uno sviluppo che tenga conto del benessere di chi produce quella ricchezza.
In modo quasi paradossale, perciò, sia il Governo di Pechino che la campagna “Workers Lives Matter” sono dalla stessa parte.
Storia e obiettivi della campagna
La campagna “Worker time” ricorda molto un’analoga mobilitazione. Nel 2019, era infatti stata lanciata la campagna 996.ICU (Intensive Care Unit), che aveva uno slogan molto simile a quello attuale: “Developers’ lives matter”.
La protesta però non aveva portato a grandi risultati. «Questo progetto ne eredita lo spirito ma ne elimina i difetti», ha dichiarato uno dei fondatori della nuova campagna su Zhihu, una piattaforma simile a Quora. Parafrasando Mao Zedong, i nemici e gli amici della campagna adesso sono decisamente più chiari. «Da un lato ci sono tutti i lavoratori, senza alcuna distinzione, dall’altro i capitalisti, che sfruttano i lavoratori in maniera diversa a seconda del settore», hanno dichiarato sempre gli organizzatori.
L’obiettivo del movimento è promuovere una routine lavorativa di otto ore al giorno per cinque giorni a settimana, in conformità con la legge. E, dopo decenni di rapida crescita a discapito dei diritti dei lavoratori, ora si vorrebbe spingere per uno sviluppo che tenga conto del benessere di chi produce quella ricchezza.
A essere nel mirino è soprattutto il settore tech, uno dei primi a sfruttare in maniera massiccia i lavoratori, imponendo loro giornate anche oltre dieci ore lavorative con pochissimo riposo. Ora però qualcosa sembra essere cambiato.
Nel documento Excel sono raccolte anche una serie di concessioni ai dipendenti: il 75% delle voci parlano di due giorni di riposo a settimana. Già a giugno, alcune grandi società come Douyin avevano detto addio alla settimana lavorativa di sei giorni. Tencent, poi, ha istituito una giornata della salute, in cui i dipendenti sono invitati a finire non più tardi delle sei di sera. Nella sezione dedicata alla valutazione soggettiva dell’ambiente di lavoro, alcuni raccontano di un buon legame con il resto del team, un capo particolarmente gentile e ottimi pasti forniti dall’azienda. Ma emergono anche numerose lamentele per straordinari non pagati, multe in caso di ritardo, «rigidi requisiti di presenza» o richieste di flessibilità, che comporta la reperibilità durante i giorni di riposo e straordinari in caso di esigenze particolari.
«Molti di noi sanno cosa stanno accettando quando decidono di lavorare per società di Internet», ha dichiarato a TechCrunch una donna che ha lavorato per molte di queste società in Cina. Molti evidenziano come questa riforma non sembri cambiare la loro vita. «Nulla è cambiato per me o per la mia squadra per quanto ne so. Lavoro nei fine settimana e lavorerò durante la festa nazionale del 1 ottobre. Solo perché è ufficialmente un giorno libero non significa che l’attività si fermi», ha detto un dipendente di una società cinese quotata negli Stati Uniti.
La strada verso i diritti dei lavoratori in Cina, insomma, è ancora molto lunga.