“Work from home facilitator”: il manager che facilita lo smart working
La pandemia ha ribaltato i classici canoni dell’organizzazione del lavoro. Durante la primavera del 2020, nel giro di qualche settimana, quasi tutte le aziende si sono dovute adattare a una nuova realtà spostando il lavoro (e la postazione di lavoro) all’interno delle case dei singoli lavoratori.
Il persistere della pandemia ha fatto capire che lo smart working si sarebbe consolidato, diventando la modalità di lavoro abituale per moltissime persone. Ma il processo per organizzare questa nuova normalità non è semplice. Alcune aziende erano già avanti, altre hanno avuto e hanno bisogno di un supporto. Questo ha portato alla nascita di un nuovo lavoro: il facilitatore dello smart working, ovvero il manager che aiuta il buon funzionamento del lavoro da remoto nelle aziende.
Gruppi internazionali e tecnologici come Facebook e Twitter si sono dotati di persone che lavorano unicamente per garantire l’efficienza del lavoro da casa. Anche in Italia molte aziende si sono rivolte a figure di questo genere per realizzare progetti di lavoro da remoto tenendo conto delle risorse umane, degli spazi e delle capacità tecnologiche.
Luca Brusamolino, esperto di smart working, co-founder e CEO di Workitect, società italiana che accompagna le aziende verso nuovi modi di lavorare, spiega come lavora questa nuova figura.
«Come ogni facilitatore, metto le altre persone nella condizione di rendere al meglio un’opportunità. In questo caso quella dello smart working», dice. «Tutto parte dall’ascolto e dall’analisi della realtà aziendale specifica. Il principale obiettivo è coniugare la libertà del singolo lavoratore con l’esigenza del gruppo di lavoro e dell’azienda. Il tutto rispettando i canoni normativi fissati dalla legge».
Tutto parte dall’ascolto e dall’analisi della realtà aziendale specifica. Il principale obiettivo è coniugare la libertà del singolo lavoratore con l’esigenza del gruppo di lavoro e dell’azienda.
«In senso generale io interpreto lo smart working come una nuova filosofia manageriale fondata sulla restituzione alle persone di flessibilità e autonomia nella scelta degli spazi, degli orari e degli strumenti da utilizzare a fronte di una maggiore responsabilizzazione sui risultati», dice. «Poiché con lo smart working cadono i rigidi limiti di tempo e l’utilizzo di una postazione fissa, molte società si rivolgono a noi per riorganizzare al meglio l’attività quotidiana dei propri dipendenti».
Secondo Brusamolino, il grande cambiamento nell’organizzazione del lavoro è iniziato ben prima della pandemia, con l’arrivo dei primi telefoni collegati a Internet e dei successivi smartphone. «Il Blackberry è stato l’inizio della trasformazione: dal lavoro in postazione e senza interruzioni, si è progressivamente passati a lavorare in movimento. Fino ad arrivare alla pandemia che ha concluso questo cambiamento trasferendo il lavoro completamente a casa».
Per quanto strano possa sembrare, anche le aziende che facilitano lo smart working hanno dovuto modificare la propria offerta a causa della pandemia. Prima, infatti, i loro clienti chiedevano solitamente come potersi organizzare al meglio per consentire ai dipendenti di lavorare in smart working un giorno a settimana, ma l’ufficio rimaneva la base e il fulcro di ogni attività. Dalla primavera del 2020, invece, l’ufficio è, per così dire, sparito. Si è posta la necessità di capire come gestire la quasi totalità dei lavoratori da remoto. Un grosso cambiamento, avvenuto inoltre in brevissimo tempo. Infine, in questi ultimi mesi, l’esigenza è quella di spingere i lavoratori a tornare a lavorare in presenza. Anche se non tutti i giorni.
Ci vogliono uffici che siano activity-based, in grado cioè di offrire ambienti differenti a seconda del tipo di attività che si svolge durante la giornata.
«Affrontare queste tre diverse fasi è stato molto stimolante. Durante la pandemia, per venire incontro a un bisogno diffuso tra molti lavoratori, abbiamo anche avviato corsi di formazione sullo smart working. Essi non riguardavano solo approfondimenti tecnologici o informatici, ma anche la creazione di codici comunicativi uguali per tutti, in modo da evitare che alcuni lavoratori rimanessero indietro. Il divario tecnologico tra lavoratori giovani e anziani può essere molto ampio in alcune realtà. E spesso lo si nota dal consumo di carta: i nativi digitali stampano molto di rado».
Molte aziende, negli ultimi mesi, si sono chieste se l’ufficio sia davvero necessario per un lavoro produttivo ed efficace. Probabilmente è ancora prematuro abbandonarlo del tutto, specialmente per le grosse aziende, mentre è certamente necessario rivederne la progettazione.
Su questo tema Brusamolino racconta che «ci vogliono uffici che siano activity-based, in grado cioè di offrire ambienti differenti a seconda del tipo di attività che si svolge durante la giornata. Sono quindi utili sale insonorizzate dove poter fare le call, sale per stand up meeting, visto che è scientificamente provato che fare riunioni in piedi produce ottimi risultati, e aree dedicate esclusivamente alla concentrazione o alla socialità».
La questione, conclude Brusamolino, è «comprendere che mentre lo smart working si consolida, negli uffici è in corso un passaggio da scrivania singola a un menù di spazi differenti che il lavoratore può utilizzare in azienda. Proprio come avviene a casa, dove ogni spazio ha una precisa finalità».