La Gig economy? Domani la chiameremo Crowd economy
Partiamo dalla definizione: crowd (folla) e work (lavorare). Il crowdworking è un modello che descrive una forma di lavoro in base alla quale i committenti (i crowd sourcer) richiedono attraverso una piattaforma digitale lo svolgimento di attività alle persone registrate al dispositivo. Negli ultimi anni la crescita del crowd working è stata davvero notevole: il focus della Banca Mondiale, intitolato “The Global Opportunity in Online Outsourcing”, valuta che grazie a questa modalità entro il 2020 si raggiungerà un fatturato pari a 25 miliardi di dollari. Le piattaforme digitali di crowdsourcing attive su scala globale sono 2.300. Tra queste, le più famose sono le americane Amazon Mechanical Turk (AMT), Top Coder e Upwork, l’australiana Freelancer.com, la tedesca Twago. Altri dati: nel 2015, AMT ha dichiarato 500mila iscritti provenienti da 190 Paesi diversi, Top Coder 753.911, Upwork 8 milioni in 180 nazioni, Freelancer 14,5 milioni con 7,5 milioni di progetti, mentre Twago 263.715 iscritti con 66.683 progetti.Tra i crowd sourcer compaiono nomi altisonanti come Google, Intel, Facebook, AOL, NSA, Telekom, Honda, Panasonic, Microsoft, NBC, Walt Disney e Unilever. E l’Italia? «Per ora siamo ancora in ritardo, ma di fronte a questi numeri non è difficile prevedere che presto la crowd ecomomy si ritaglierà uno spazio rilevante anche nel nostro Paese». Ne è convinto il giuslavorista Ciro Cafiero, uno dei massimi esperti della materia nel panorama italiano.
Oggi però da noi più che di crodw work si parla di gig-economy, l’economia dei cosiddetti “lavoretti on line”. Dove sta la differenza?
Partiamo dall’analogia più evidente: entrambi i modelli poggiano su una piattaforma tecnologica che in un certo senso può essere definita “il committente” del lavoro. A partite da qui scatta quella che chiamano “corsa dei levrieri”. Ovvero la competizione fra i workers ad espletare la commessa nel più breve tempo possibile in modo da guadagnare crediti rispetto alla piattaforma. Questo determina una sorta di “disintermediazione” del lavoro sia in senso verticale (non siamo nell’ambito di un contratti di assunzione), sia in senso orizzontale (di fatto non esistono rapporti di colleganza). In Italia, pensiamo a Foodora oppure a Uber questo business model viene utilizzato quasi esclusivamente per i servizi di trasporto di cibo o persone spesso i fornitori sono i Neet. All’estero non è così e questa è una differenza sostanziale.
In Italia il business model del crowd working viene utilizzato quasi esclusivamente per i servizi di trasporto di cibo o persone.
Cosa intende?
Le piattaforme straniere di crowd working richiedono servizi e quindi professionalità diverse e più complesse: pensi alla produzione di articoli di giornale, video, pezzi musicali, correzione di bozze e così via.
Cosa le fa credere che l’Italia possa mettersi in breve tempo in scia rispetto agli altri Paesi?
Essenzialmente due ragioni: la prima è la crescita dei numeri che la crowd economy ha registrato nei Paesi locomotiva. E in questo senso non vedo perché l’Italia non possa raggiungere quelle performance. Secondo perché si tratta di un modello che si attaglia perfettamente ai millennials. Una generazione che fa fatica a concepire il lavoro come un’occupazione stabile da svolgere sempre nello stesso modo e nello stesso spazio e in un tempo predefinito. E soprattutto interpreta l’uso di internet e delle tecnologie come parte essenziale della loro occupazione. Inoltre il loro livello di conoscenza dell’inglese che consente di dialogare col resto del mondo è molto più alto rispetto a quello delle generazioni precedenti.
Il crowd work potrebbe essere la chiave di volta per rilanciare le zone più depresse del nostro Paese, ma anche dell’intero pianeta.
Quale tipo di sviluppo potrebbe avere questo modello nei prossimi anni in Italia, allora?
Le faccio un esempio concreto. Mettiamo che attraverso una piattaforma americana una società Usa richieda la fornitura di una particolare produzione tipica del nostro Mezzogiorno. Diciamo mozzarelle di bufala del casertano o un manufatto artigiano calabrese. Ecco io mi immagino che se questa richiesta venisse intercettata da un gruppo di giovani campani o calabresi si aprirebbe un’autostrada per le nostre produzioni che in questo modo arriverebbero sui mercati internazionali, invertendo in un certo senso la logica della delocalizzazione secondo la quale produzione e commercializzazione sono funzioni che devono insistere sullo stesso territorio. Ecco io penso che in futuro di casi come questo ce ne saranno sempre di più. Se allarghiamo l’orizzonte proprio il crowd work potrebbe essere la chiave di volta per rilanciare le zone più depresse del nostro Paese, ma anche dell’intero pianeta.