Imparare a navigare in un mondo incerto, ma con intelligenza
Il presente è precario, il futuro incerto. Ogni situazione può cambiare da un momento all’altro e le sicurezze del passato – come ormai hanno dimostrato la pandemia prima e la guerra dopo, con conseguenti difficoltà economiche diffuse – non bastano più. Come ci si deve muovere in questa situazione di fragilità, in cui gli scenari mutano in fretta?
Secondo il sociologo ed economista Mauro Magatti, «un catalogo di istruzioni sul tema non esiste», spiega. E in un universo mobile, ognuno è obbligato a navigare a vista, anche in mancanza di punti di riferimento. «Non ci sono leader, politici o tecnici, che sappiano sollevarsi al di sopra degli altri e prendersi la responsabilità di mettere ordine in un mondo caotico», dice il docente dell’Università Cattolica di Milano. Questo non significa che questa responsabilità debba ricadere di conseguenza sul singolo soggetto, perché «una delle caratteristiche di questo tempo è che nessuno ha responsabilità di nulla: viviamo in sistemi così complessi e intrecciati dove la portata delle nostre azioni è limitata e così il cambiamento che si vuole mettere in atto».
La vita comporta l’esposizione a cose che non conosciamo e che non controlliamo. Servono prudenza, misura e intelligenza.
Insomma, si vive in modo incerto e quello che si fa può non avere nemmeno efficacia. O quasi. «Mi viene in mente la canzone di De Andrè, dove dice “se il soldato non fa la guerra, la guerra non si farà”, per dire che c’è distanza tra ciò che uno può fare (ed è tanto) e ciò che uno è chiamato a fare, ma niente può essere davvero efficace se non ha una portata collettiva. Quello che serve», spiega, «è un cambiamento culturale – e spirituale – che abbandoni quella fantasia in cui ci siamo cullati per tutti questi anni, quella secondo cui possiamo esistere in maniera autonoma e indipendente. È fallita, non vale più. Noi siamo interconnessi e viviamo nella relazione. E la relazione comporta una cultura della relazione: e questo vale a livello micro, per i singoli individui, e via via a livello macro, cioè per le aziende e interi Paesi». Se i vecchi sistemi sono caduti, la fase di transizione verso questa consapevolezza è però ancora lunga e «richiederà molti anni» e da qui discende l’instabilità di questi tempi.
Serve sapersi muovere nelle relazioni e riconoscerne l’imprescindibilità. La prima parola d’ordine non è però “inter-dipendenza”, «che è un tipo di relazione importante ma anche pericolosa, dove qualcuno può prendere il comando e sfruttare la dipendenza e i legami altrui. È meglio parlare, sulla scorta del filosofo e scrittore spagnolo Raimon Panikkar, di “inter-indipendenza”. Non è un gioco di parole: dalla fantasia dell’indipendenza si può passare all’inter-indipendenza, dove la libertà (indipendenza) e il legame (inter-) sono elementi compresenti. La relazione non diventa oppressiva, ma viene riconosciuta: vale per l’impresa, il cui scopo è il profitto, che però non può più prescindere dall’ambiente in cui si trova e dal rispetto dovuto e nemmeno dalle condizioni dei suoi lavoratori. I due elementi vanno di pari passo e con pari dignità. Vale anche per gli Stati, in cui i confini non possono essere vissuti come qualcosa da abbattere, ma da rispettare in un sistema di legami reciproci, senza però che ogni Paese rinunci a seguire la sua politica».
Il problema è che abbiamo immaginato che il rischio fosse calcolabile – e quindi domabile – con i calcoli di un algoritmo, in un delirio di controllo e onnipotenza che ci ha condotto in un vicolo cieco.
È in questa dimensione comprensiva – della propria individualità e dei legami che la definiscono – che ci si può aprire al secondo, importante, aspetto: quello del rischio. «Non esiste vita che non abbia rischio, è una delle componenti fondamentali e costitutive. L’assenza di rischio – di incertezze, pericoli, elementi imprevedibili – è morte. Il problema è che abbiamo immaginato che il rischio fosse calcolabile – e quindi domabile – con i calcoli di un algoritmo, in un delirio di controllo e onnipotenza che ci ha condotto in un vicolo cieco», cioè «a una domanda patologica di insicurezza». Il risultato è una tenaglia fatta di controllo e istanze di sicurezza, di calcolo e certezza, di immobilità e prevedibilità.
«La vita non è fatta così, anzi. È faticosa, comporta l’esposizione a cose che non conosciamo e che non controlliamo. Però non deve essere condotta a caso o con follia. Servono prudenza, misura e intelligenza. Per questo il tema del rischio è importante», spiega, «chi lo rimuove toglie una importante domanda spirituale comune a tutti, elimina interrogativi e diffonde false sicurezze. Queste alla lunga sfaldano la società, la privano di senso: stare insieme per affrontare i pericoli e gli imprevisti appare superfluo – non lo è, certo – e ogni individuo può cominciare a pensare di potersela cavare da solo in ogni situazione – e non è vero nemmeno questo».
È qui il legame tra rischio e inter-indipendenza: autonomia, ma comprensione del vivere nella società, in un mondo insicuro. «Di fronte al rischio c’è la nostra stessa essenza di esseri umani, dove decidiamo di metterci in gioco», dove si può vedere il valore di ciascuno e cogliere l’importanza dei legami.
La transitorietà ci spaventa, certo. L’incertezza può immobilizzare. Ma è proprio questa la condizione umana nel suo senso più vero. E bisogna saperla navigare, senza illusioni e senza paura.