L’inflazione e il rischio della spirale tra prezzi e salari, secondo Roberto Perotti
Da settimane l’inflazione cresce e avvolge la maggior parte delle economie più sviluppate, soprattutto quelle del mondo occidentale, dall’Europa agli Stati Uniti fino all’Asia. L’aumento dei prezzi ha raggiunto i massimi livelli da molti anni a questa parte, spinto dal rincaro di luce e gas.
Gli ultimi dati Istat per l’Italia, riferiti a dicembre 2021, parlano di un aumento del 3,9% in un anno, con un rincaro non solo delle bollette energetiche ma anche dei beni alimentari.
Ma in che modo l’inflazione si lega e può essere influenzata dall’andamento del mercato del lavoro? «Sarà in gran parte il mercato del lavoro a determinare se il forte aumento dei prezzi di questi mesi rimarrà una fiammata temporanea oppure un fenomeno duraturo», hanno spiegato su Repubblica gli economisti Tito Boeri e Roberto Perotti.
I posti vacanti e le dimissioni volontarie in aumento in tutto il mondo rischiano a loro volta infatti di spingere verso l’alto sia i prezzi sia i salari. È quella che gli economisti chiamano “spirale salari-prezzi”, che potrebbe allungare per molto tempo la crescita dell’inflazione.
Di cosa parliamo
Ma partiamo dalle definizioni. In generale, l’inflazione è un aumento generale e costante del livello dei prezzi di beni e servizi. La prima e più evidente conseguenza dell’inflazione, quindi, è la diminuzione del valore del denaro e del suo potere d’acquisto.
La prima e più evidente conseguenza dell’inflazione è la diminuzione del valore del denaro, quindi del suo potere d’acquisto
Per i lavoratori, soprattutto per chi ha uno stipendio fisso, la ricaduta sul tenore di vita all’aumentare dell’inflazione è immediata. È possibile notarla anche semplicemente andando a fare la spesa.
La priorità collettiva per contrastare l’inflazione è quindi quella di cercare di ottenere salari migliori. Il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, davanti alle difficoltà delle aziende americane che lamentavano di non trovare lavoratori, a giugno scorso aveva trovato la soluzione più intuitiva e per certi versi ovvia: suggerì alle imprese di pagarli di più e, magari, concedere benefit più allettanti. «Pay them more», disse in conferenza stampa.
E in effetti negli Stati Uniti si è registrato già un aumento dei salari, anche per i lavoratori a bassa qualifica. Per accaparrarsi la manodopera necessaria, le aziende hanno cominciato a competere sugli stipendi.
Lo stesso è accaduto anche nel Regno Unito, soprattutto in occasione delle festività natalizie. In Germania, nel contratto del nuovo governo tra Socialisti, Liberali e Verdi, è stato inserito l’aumento del salario minimo del 25%. E in Francia il salario è già aumentato del 2,2% a ottobre.
La spirale salari-prezzi
Ma l’aumento dei salari, di per sé, non è una buona notizia. La rincorsa al rialzo, con i lavoratori che chiedono stipendi più alti perché vedono diminuire il proprio potere d’acquisto, potrebbe finire infatti per diventare una spirale pericolosa. È quella che gli economisti, appunto, definiscono come “spirale salari-prezzi”.
Se gli stipendi crescono perché aumenta la produttività, si tratta di una buona notizia, e l’inflazione dovrebbe diminuire con il tempo portando quindi benefici anche ai lavoratori. Ma se salari e prezzi si rincorrono in una spinta al rialzo, l’effetto è ben diverso: se i lavoratori chiedono uno stipendio più alto per tenere il passo con un aumento del costo della vita, le aziende a loro volta potrebbero alzare i prezzi a causa del costo del lavoro più alto. E così si creerebbe un circolo vizioso che potrebbe far durare a lungo la crescita dell’inflazione.
Il rischio da evitare è proprio questo. «La cattiva notizia c’è se l’inflazione innesta una spirale prezzi-salari: i salari aumentano per tenere testa all’aumento dei prezzi, i prezzi aumentano per difendere i margini di profitto dall’aumento dei salari, e così via», spiega Roberto Perotti, economista dell’Università Bocconi di Milano.
La cattiva notizia c’è se l’inflazione innesta una spirale prezzi-salari
Roberto Perotti, economista dell’Università Bocconi di Milano
Cosa sta accadendo nel mercato
Dagli Stati Uniti all’Europa, oggi le imprese lamentano carenza di manodopera, tra l’aumento delle dimissioni e una nuova propensione emersa dalla pandemia che fa sì che si dia nuovo senso e valore al lavoro con una riduzione della soglia di accettazione di salari bassi e ritmi di lavoro martellanti. Senza dimenticare il disallineamento di competenze di cui soffrono molti Paesi, mentre le economie del mondo si muovono verso la transizione verde e digitale.
A essere introvabili però non sono solo professionisti qualificati, ma anche lavoratori con basse qualifiche. Cosa che sta già spingendo le imprese, soprattutto quelle più grandi, a competere tra di loro offrendo stipendi più alti per accaparrarsi i lavoratori.
Ma in Italia è ancora presto per parlare di un effetto della crescita dei prezzi sul mercato del lavoro, come spiega Perotti: «In questo momento l’inflazione, da sola, credo che abbia un impatto molto marginale in Italia. Dal punto di vista dell’occupazione il mercato soffre ancora per le conseguenze del Covid in molti settori».
In questo momento l’inflazione, da sola, credo che abbia un impatto molto marginale in Italia
Roberto Perotti, economista dell’Università Bocconi di Milano
Semmai, il problema dell’occupazione italiana in questa fase potrebbe essere causato dalla paura del contagio legato alla nuova ondata del Covid. Questo, eventualmente, aiuterebbe a spiegare anche perché negli ultimi due anni le difficoltà di reclutamento di personale siano aumentate insieme al diffondersi di varianti del virus più contagiose. Il tasso di posti vacanti nel terzo trimestre del 2021, stabile rispetto secondo, resta infatti alto all’1,8%, anche se minore rispetto ad altri Paesi europei.
«È una possibile spiegazione», dice Perotti, «per il fatto che il tasso di posti di lavoro vacanti riguarda anche i lavori poco qualificati: è il più alto da quando sono iniziate le rilevazioni Istat».
Ma per la carenza di posti di lavoro non bisogna dimenticare anche il fattore demografico. «Considerando che in Italia gli over 45 nel 2019 erano il 53,5%», conclude Perotti, «gli effetti sul mercato del lavoro potrebbero anche essere già presenti: è solo un’ipotesi, ma è plausibile. Anche se sospetto che siano soprattutto i candidati più giovani e più a loro agio nel mondo digitale a essere diventati più selettivi nello scegliere e accettare un lavoro. Ma anche di questo non abbiamo prove al momento».