Intelligenza emotiva: ecco come le aziende possono aiutare i loro dipendenti a lavorare meglio


Il mito del lavoratore modello, asettico, instancabile e iper-razionale sta finalmente facendo il conti con la realtà. L’ingresso delle discipline neuro-comportamentali anche in ambiti apparentemente lontani, come l’economia o la gestione del lavoro, ha sdoganato quello che è sempre stato un dato di fatto: siamo esseri emotivi e la nostra componente emozionale non ci abbandona mai, nemmeno nelle occasioni in cui vorremmo sentirci il più possibile razionali e impersonali, come nell’abito lavorativo.

Se in campo finanziario è ormai del tutto sdoganata l’economia comportamentale – per fare un esempio vicino a noi, pensiamo a Matteo Motterlini e al suo Economia emotiva , l’organizzazione del lavoro e le tecniche di team leading stanno dando credito su larga scala all’importanza della cosiddetta intelligenza emotiva. Già negli anni ’90 gli scienziati Peter Salovey e John D. Mayer, con il loro articolo Emotional Intelligence, parlavano proprio della “capacità di riconoscere, comprendere e gestire le emozioni proprie e altrui”. Una definizione che sarà ripresa – dal ’95 in poi – da Daniel Goleman, psicologo, giornalista e promotore instancabile di questa particolare caratteristica relazionale.

Se non siamo quelle razionali e infallibili macchine di calcolo che affollano i modelli economici, quindi, tanto vale prenderne atto e imparare a canalizzare la componente emozionale in modo proficuo, perché fare proprie le emozioni e averne padronanza comporta una serie di vantaggi: per esempio un ambiente di lavoro più sereno, una miglior collaborazione tra i dipendenti e una valorizzazione più efficace delle competenze individuali, perché un dipendente motivato in modo efficace e messo nelle condizioni di lavorare al meglio – strano a dirsi, no? – lavora effettivamente meglio.

Già negli anni ’90 gli scienziati Peter Salovey e John D. Mayer parlavano proprio della “capacità di riconoscere, comprendere e gestire le emozioni proprie e altrui

Per questo, nel corso degli anni, la capacità di leggere le emozioni si è ritagliata un posto d’onore tra le doti attribuite ai leader di successo, creando anche una serie di studi complementari su come allenarla e affinarla, come testimonia il professor Tarun Khanna con il suo paper Contextual Intelligence pubblicato nel 2014 sull’Harvard Business Review. In pratica, si tratta di conoscere se stessi con franchezza per capire come si agirebbe di fronte alle varie situazioni e, naturalmente, anche come agirebbero gli altri, in modo da relazionarsi a loro nella maniera più proficua.

I fattori variano da modello a modello ma nella sostanza rimangono sempre fedeli a quelli individuati da Goleman nel ’95. Si tratta di lavorare su una serie di passaggi, quindi: consapevolezza di sé, in pratica conoscere le proprie emozioni e come influenzano le azioni; gestione di sé, cioè la capacità di orientare le proprie emozioni in modo utile; consapevolezza sociale, che consiste nel comprendere gli altri e le dinamiche all’interno del loro contesto (in pratica: l’empatia) e infine la gestione delle relazioni, che vanno guidate in modo da risultare il più possibile serene, trasparenti ed efficaci.

Ma come agisce oggi un’azienda che punta sull’intelligenza emotiva? Cercando di mettersi nei panni del dipendente. Per esempio con orari di lavoro personalizzati, con l’assunzione di psicologi nei team di risorse umane e con servizi di formazione sempre più mirati. Dopo tutto, siamo umani 24 ore al giorno, e non soltanto nel tempo libero.

Di |2024-07-15T10:04:48+01:00Dicembre 22nd, 2017|Human Capital, Lifestyle, MF|0 Commenti