Solo in Italia i salari fermi al 1990. Sicuri?
I dati relativi al periodo 1990-2020 vedono fermi al palo i salari medi dei cittadini italiani rispetto a quelli dei cittadini dei Paesi dell’est Europa o dei Paesi dell’area mediterranea. Tuttavia, chiarisce Luciano Canova, economista e divulgatore della Scuola Enrico Mattei, «urge un controllo sulla qualità dei dati. Viviamo nell’era dei numeri che ci bombardano e delle piattaforme che ne amplificano l’onda: questa tabella viaggia ormai da mesi sulle bacheche, sui profili e tra i tweet di molti utenti, ma la fonte originaria qual è? Si parla di OECD, ma provando a risalire con qualche sforzo, l’opzione migliore disponibile è Openpolis, in cui si parla di elaborazione da dati OECD». Il grafico mostra che il calo di salari medi italiani dal 1990 al 2020 è pari a -2,9%. L’Italia è l’unico Paese europeo in cui sono diminuiti, passando da 38,9mila a 37,8mila dollari l’anno. Nei Paesi dell’ex-blocco sovietico sono anche raddoppiati o quasi triplicati (la Lituania è il Paese che ha visto l’aumento maggiore, pari al 276,3%, bisogna considerare, però, che il punto di partenza era rappresentato da salari molto bassi). Ma anche in Paesi con una storia più simile a quella italiana i salari sono aumentati. In Spagna, ad esempio, si è registrato un aumento del 6,2% e in Grecia del 30,5%.
«Non è per screditare il dato, ma per valorizzarne la portata: tutti dobbiamo abituarci a prendere confidenza con i numeri e a chiedere trasparenza a chi li pubblica. Un intervento pubblico efficace passa anche dall’educazione di noi cittadini a leggere i numeri e dalla responsabilità di chi se ne serve». A questo tema Canova ha dedicato il suo ultimo libro, Elefante Invisibile (Saggiatore 2022), un manuale che, alternando scienze comportamentali ed economia, psicologia e cultura pop, ci conduce a confrontarci con le pericolose trappole mentali che da sempre ci impediscono di riconoscere e affrontare i grandi problemi del nostro tempo.
Il paradosso della produttività
In ogni caso, il tema dei salari fermi è dibattuto da decenni in economia e non a caso si parla (o almeno si dovrebbe parlare) del paradosso della produttività. «La produttività italiana – prosegue l’esperto – è ferma da decenni o, quanto meno, non cresce al ritmo di quella degli altri Paesi: un sistema produttivo e competitivo libera spazio e risorse per aumentare gli stipendi, come accade per esempio nella sempre decantata Germania che sperimenta contratti collettivi con riduzione di orario e aumenti di salario. Ma ciò accade anche in Spagna e Portogallo che, fino a pochi anni fa, rappresentavano i cugini di sventura dell’area sud Europa e che, pur con mille caveat, sembrano avviati su un sentiero di sviluppo più in linea con il resto del continente».
Un sistema produttivo e competitivo libera spazio e risorse per aumentare gli stipendi.
Come si misura la produttività è un altro tema importante: l’OECD costruisce indici composti da vari elementi, dall’innovazione tecnologica al grado di apertura dei mercati alla semplicità delle procedure. «Oltre al cuneo fiscale – sottolinea Canova – e al costo del lavoro, tema sacrosanto su cui servirebbe un intervento strutturale e quello che una volta si sarebbe chiamato nuovo patto sociale tra le parti in causa (organizzazioni dei lavoratori e associazioni imprenditoriali, oltre alla politica), si può e si deve agire sulla sburocratizzazione, altro tema fortemente trascurato».
Per dirla semplicemente, aggiunge «mettere un lavoratore nelle condizioni di risparmiare il tempo che dedica a chiudere pratiche ancora cartacee, a compilare moduli inutili, a mandare una mail più del dovuto. E mettere l’imprenditore nelle condizioni di fare altrettanto quando chiede l’autorizzazione ad avviare un progetto o a realizzare un investimento. Per non parlare dei tempi della giustizia civile e delle cause, altro tasto dolente in cui l’Italia è fanalino di coda per efficienza e certezza delle sanzioni».
Salario minimo
Ultime, ma non meno importanti, sono le riflessioni sul salario minimo, entrate recentemente nel dibattito per le raccomandazioni che arrivano dall’Europa e che non concernono direttamente l’Italia, Paese in cui (come in Svezia, Finlandia, Danimarca, Austria e in parte Cipro) non esiste una legge sul salario minimo anche se un fondamento costituzionale di una legge sul salario minimo può essere ritrovato nell’articolo 36, che sancisce il diritto del lavoratore a una retribuzione adeguata. «Qualcuno paventa che introdurre un salario minimo costituirebbe un elemento di rigidità ma, come spesso ribadito da Andrea Garnero, economista del lavoro presso la Direzione per l’Occupazione, il Lavoro e gli Affari Sociali dell’OCSE, il salario minimo è più un pavimento di dignità a partire dal quale costruire un intero sistema di diritti e condizioni lavorative, che può benissimo agire in complemento a misure che incrementino produttività e liberino risorse per un aumento degli stipendi». Come che sia, la situazione necessita di interventi importanti: «è tornata l’inflazione, che ci eravamo un po’ dimenticati, e un potere d’acquisto eroso su base annuale dell’8% agisce come catalizzatore di nuove preoccupazioni per cittadini già sfiancati da una pandemia che non è ancora finita».
È necessaria una concertazione inclusiva in cui ciascuno sia disposto, con approccio collaborativo, a dare e a ricevere: «servono sindacati flessibili sulle richieste di maggiore flessibilità da parte dei datori di lavoro; servono datori di lavoro che diano fiducia ai propri collaboratori, disegnando anche un sistema di incentivi che tenga conto delle modalità in cui si lavora (lavoro da casa o agile, benefit non monetari, etc.); serve un governo che non disperda risorse in rivoli di bonus, super o meno, e pensi piuttosto a un intervento organico di riduzione del costo del lavoro da un lato e accelerazione su investimenti e sburocratizzazione dall’altro».