Viaggio nel mondo degli Its, le scuole d’avanguardia che in Italia stentano a decollare
Nata nel 2008, la galassia degli Its (istituti tecnici superiori) conta 93 pianeti. Tutti diversi. Dal turismo alla mobilità, passando per la moda, il settore vitivinicolo, quello meccanico e agricolo. Per non parlare del grande sistema solare che ruota attorno all’utilizzo e alla programmazione dei software. Un vero e proprio universo diviso in sei macroaree tecnologiche che in molti casi è ancora tutto da scoprire, nonostante i numeri sempre più positivi che parlano di una media del 79% di diplomati che trovano lavoro dopo un anno dal conseguimento del titolo e un finanziamenti da 50 milioni in tre anni in arrivo dal Miur.
Ma cosa sono gli Its? Si tratta della prima esperienza italiana di offerta formativa terziaria professionalizzante che prende spunto da realtà simili e già ben più consolidate all’estero. Il loro scopo è quello di formare tecnici superiori in aree strategiche per lo sviluppo economico e la competitività dell’intero sistema paese grazie a uno stretto rapporto fra istruzione e lavoro. I percorsi a cui gli allievi partecipano, circa 20-25 per classe, hanno una duranta biennale o triennale per un totale di 1800/2000 ore. Il 30% delle quali è coperto da uno stage obbligatorio all’interno di un’azienda. Per accedervi, i candidati in possesso di un diploma di istruzione secondaria superiore (così come i docenti che volessero insegnare in questi istituti e che per il 50% vengono dal mondo dell’impresa) devono superare un attento esame che si divide in una parte di cultura generale e in una prova tecnica seguita da un colloquio motivazionale. Alla fine dell’intero percorso, la qualifica è quella di Tecnico Superiore che corrisponde al V livello del Quadro europeo delle qualifiche. Anche se quel che conta di più è avere già un piede e mezzo nel mondo del lavoro.
Un ruolo molto importante, in questo senso, lo svolge la fondazione: «Si tratta di una istituzione che si fonda sul partenariato fra diversi soggetti pubblici e privati, che ha lo scopo di costruire una rete di interessi e di investimenti, anche simbolici, al fine di tirare fuori il meglio dal territorio e dalle sinergie fra le diverse realtà coinvolte», spiega Antonella Zuccaro, ricercatrice Indire specializzata nel campo degli Its. «Nel tempo, però, questo sistema ha mostrato alcuni limiti burocratici e imprenditoriali. Per questo – afferma Zuccaro – al momento è attivo un tavolo di discussione supportato da un comitato tecnico-scientifico che accogliendo le varie esperienze dal basso riesca a far proseguire lo sviluppo di questo giovane sistema formativo». Insomma, anche in questo caso le criticità non mancano. La prima riguarda il numero degli allievi. Da poco si è superata quota 10mila studenti, ma è ancora poco rispetto a quanto si fa in Europa e, soprattutto, rispetto agli iscritti alle università. Il secondo problema ha a che fare con l’evoluzione di quelle figure nazionali verso cui si indirizzano i piano formativi degli Its: dopo un decennio di vita le figure professionali hanno bisogno di un rinnovamento. In questo senso deve leggersi, per esempio, la sperimentazione di sei Its all’interno di un quadro di sviluppo dell’Industria 4.0: «Molte imprese ancora non sanno quale sarà l’impatto dello sviluppo dell’Industria 4.0 sul loro settore e per questo necessitano di un dialogo con chi può innovare le competenze da mettere successivamente a frutto all’interno del sistema produttivo», conclude Zuccaro.
Qui i tassi di occupazione dopo il diploma superano l’80%. Merito soprattutto di una stretta collaborazione fra Its e aziende del territorio
Una delle realtà più attive è quella dell’Its-Ict Piemonte di Torino che offre tre percorsi di specializzazione: backend development, web e mobile design, interection e visual design. «Lavoriamo per dare i maggiori sbocchi professionali possibili ai nostri ragazzi», afferma Andrea Goia, professore di IoT. Qui i tassi di occupazione dopo il diploma superano l’80%. Merito soprattutto di una stretta collaborazione fra Its e aziende del territorio. «Abbiamo notevoli punti di contatto con le imprese che operano nel contesto piemontese e con cui cerchiamo di modellare l’offerta didattica. All’interno del comitato scientifico – racconta Goia – cerchiamo di attuare la maggiore flessibilità possibile per progredire con lo sviluppo delle varie materie e, in caso, integrare quelle già esistenti prendendo spunto dalle esigenze professionali richieste dal mondo del lavoro». Un esempio in questo senso è il corso tenuto dallo stesso Goia: «All’inizio per l’Internet of Thing avevo 30 ore a disposizione, poi le cose sono cambiate. Al posto del phisical computing abbiamo aggiunto gli insegnamenti di modellazione 3D e project management portando il corso a un totale di 50 ore e andando incontro alle richieste delle aziende che volevano ragazzi sempre più preparati e pronti a portare avanti in autonomia il progetto che veniva loro affidato durante lo stage o durante il periodo di inserimento lavorativo». Lezioni che si tengono all’interno di strutture molto spesso all’avanguardia. Nel caso di Torino, parliamo di cinque laboratori informatici con sistema operativo Windows, uno con sistema operativo Mac Os, un’aula per le lezioni frontali, una sala di proiezione cinematografica dolby surround, attrezzature audiovisive, software per la programmazione di app e produzione audiovisiva, strumentazione per la progettazione IoT, macchine virtuali e molto altro (compresa la mensa, uno spazio per eventi e conferenze, una biblioteca e altri spazi comuni dove fare networking con gli allievi dei vari corsi e i professionisti che insegnano).
Eppure realtà così all’avanguardia stentano a decollare. Per alcuni, il problema starebbe adirittura nel nome degli Its che ricorda troppo da vicino gli istituti tecnici, tanto che si propone di cambiarlo in “academy”. Per altri, il tema è quello della comunicazione ancora poco capillare. Oppure quello della persistente percezione della laurea come traguardo socialmente migliore. Appunti che stonano con una narrazione che vuole l’Italia il Paese per antonomasia del saper fare, in cui la bottega e l’apprendistato hanno costituito uno dei serbatoi più grandi del nostro mondo imprenditoriale ed economico. «Certo, il mondo ci guarda proprio per questo. E ora dobbiamo recuperare il ritardo, soprattutto legislativo, per rilanciare l’idea di un Paese che ce la fa», commenta Goia.