Covid-19, come si muove il mercato del lavoro in Italia dopo due anni di pandemia
Disoccupazione alta e aziende che non trovano lavoratori. Nuove assunzioni e crescita delle dimissioni. Nel mercato del lavoro italiano, a due anni dall’inizio della pandemia, convivono tendenze opposte. Ci sono 2,3 milioni di disoccupati e 13,5 milioni di inattivi, eppure per le imprese non è facile trovare il personale che cercano. Mentre i licenziamenti, dopo la fine del blocco generalizzato avviato nel marzo 2020, non sono affatto esplosi.
Disallineamento
Quello del mismatch tra domanda e offerta di lavoro non è un fenomeno nuovo per l’Italia. Da anni il disallineamento è dettato dalla distanza tra le competenze dei lavoratori e quelle che cercano le imprese, che generalmente sono sempre più specifiche e tecniche.
«Cercano occupazione molti lavoratori con competenze di tipo medio-basse, che potrebbero svolgere mansioni nei servizi a basso valore aggiunto: per questi posti, però, non c’è una domanda di lavoro sufficiente a colmare l’offerta, che è molto ampia», spiega il Presidente della Fondazione Adapt Francesco Seghezzi. «Di contro, le imprese cercano competenze di tipo intermedio tecnico-specialistico, ma sono lavori che non si possono svolgere senza le competenze adeguate. Non si può cambiare indifferentemente un lavoratore con un altro: c’è bisogno di formazione e specializzazione».
Per questo motivo, il nostro si rivela un mercato del lavoro inefficiente. La conseguenza è che ci sono molti lavoratori disoccupati che da un periodo troppo lungo fanno fatica a trovare un posto.
Sono lavori che non si possono svolgere senza le competenze adeguate. Non si può cambiare indifferentemente un lavoratore con un altro
Assunzioni, licenziamenti, dimissioni
Al momento, come registrano anche le ultime rilevazioni della Banca d’Italia, «la creazione di posti di lavoro continua a essere sostenuta soprattutto dai contratti a tempo determinato mentre il saldo complessivo delle posizioni permanenti dall’inizio dell’anno rimane all’incirca sugli stessi livelli del 2020».
Tuttavia, a settembre e ottobre 2021 sono emersi segnali di un primo lieve aumento delle assunzioni a tempo indeterminato: 230mila nuovi contratti, in linea con gli andamenti del 2019, 55mila in più rispetto agli stessi mesi del 2020. È un dato incoraggiante, soprattutto se unito a quello di cessazioni e licenziamenti, che sono rimaste complessivamente modeste: il tasso di licenziamento non si è discostato dai livelli precedenti la pandemia.
«Chi temeva un boom di licenziamenti subito dopo la rimozione del blocco è stato smentito», dice Seghezzi. «I numeri sono in linea con gli anni passati. Come si spiega? Le imprese che vanno bene, o anche solo benino, non possono permettersi di perdere lavoratori in questa fase proprio a causa del disallineamento di cui parlavamo prima; quelle che vanno male a questo punto tendenzialmente sono già alleggerite nei costi, magari perché hanno trovato modi alternativi quando c’era il blocco dei licenziamenti, per esempio non rinnovando contratti a termine e di collaborazione».
Chi temeva un boom di licenziamenti subito dopo la rimozione del blocco è stato smentito
Dall’ultimo rapporto Inapp, Istituto per l’analisi delle politiche pubbliche, emerge che i nuovi contratti firmati sono soprattutto part-time. Oltre un terzo (35,7%) dei 3,3 milioni di contratti attivati nel primo semestre di quest’anno sono a tempo parziale. Che di per sé non è indice di instabilità. Ma dal momento che in gran parte dei casi si tratta di «part time involontario» significa che non è il lavoratore a chiederlo, ma l’impresa – con l’obiettivo di risparmiare sul costo del lavoro.
L’altro fenomeno che si osserva, poi, è la crescita delle dimissioni volontarie. Ma i dati italiani a disposizione sono ancora troppo pochi per poter parlare di “Great Resignation” all’americana. Tuttavia, in linea teorica, un fenomeno di questo tipo andrebbe letto positivamente, indice di una buona mobilità del lavoro che corre parallela al rimbalzo economico, in un mercato in cui chi ha già un’occupazione si concede il lusso di lasciare il posto sapendo di trovarne uno migliore. Ma qualche dubbio in più resta sul passaggio successivo: il rischio è che l’azienda che perde un lavoratore non riesca poi a rimpiazzarlo. E, come abbiamo detto, non è proprio semplicissimo.
Quali prospettive per il futuro?
Resta da capire cosa, a questo punto, possa creare stabilità nel mercato del lavoro, e che ruolo può avere il Piano nazionale di ripresa e resilienza per rendere più sostenibile sul lungo periodo la ripresa dell’occupazione.
«Forse con nuovi sgravi e incentivi le imprese potranno stabilizzare i lavoratori, laddove i lavoratori vogliono essere stabilizzati: sappiamo che non è sempre così perché ci sono anche quelli che hanno interesse a fare una carriera discontinua, cambiare continuamente posto e azienda», dice Seghezzi.
Un’impresa che lavora bene tendenzialmente ha l’interesse ad aumentare la qualità, avere continuità dei lavoratori
Trovare un punto d’incontro tra lavoratori e imprese, però, non sarà così facile. L’unica condizione duratura per far sì che si possa davvero parlare di stabilizzazione è che le imprese lavorino bene, sotto tutti i punti di vista.
«Vuol dire che deve esserci – conclude Seghezzi – la possibilità di accedere a finanziamenti per fare innovazione, aumentare la produttività, per aprirsi ai mercati internazionali, e per migliorare l’organizzazione del lavoro. Un’impresa che lavora bene tendenzialmente ha l’interesse ad aumentare la qualità, avere continuità dei lavoratori. Ed è qui che dovrà insistere il Pnrr: investendo su digitalizzazione, sostenibilità ambientale e dei processi produttivi, con un’orizzonte temporale di cinque o sei anni, si può pensare di raggiungere risultati strutturali di lungo periodo».