Meme: satira o formazione dell’opinione pubblica?
Nella frequentazione dei social media è diventato praticamente impossible non imbattersi almeno in un meme, cioè un contenuto che si diffonde in modo virale su Internet, spesso costituito da un’immagine o un video accompagnato da una didascalia divertente. I “meme macro”, composti da un’immagine cui viene aggiunta una frase sopra e una sotto, sono quelli più conosciuti e sono ormai considerati “classici” del formato. Ma i meme possono anche assumere altre forme, come per esempio le gif, brevi animazioni che spesso si utilizzano nelle conversazioni sui sistemi di messaggistica personale, oppure i tormentoni musicali che funzionano da base per le re-interpretazioni canore. «Tutte queste forme hanno in comune il fatto di essere il frutto di una attività di produzione e consumo “pop” alla quale ciascuno di noi partecipa con impegno variabile, modificando di volta in volta il significato associato ai meme, ad esempio cambiando la battuta con cui li condividiamo», spiega Roberta Bracciale, docente di Sociologia dei Nuovi Media all’Università di Pisa.
Nonostante i meme siano ormai divenuti uno dei modi in cui i fatti della nostra società vengono commentati, soprattutto sui social, solo recentemente si è iniziato a prenderli sul serio, come sintomi di una più generale trasformazione dei modi in cui la l’opinione pubblica si forma. O si trasforma: «Se si vuole provare, almeno in parte, a comprendere i mutamenti nelle forme di partecipazione civile e politica oggi – dice Bracciale -, non è più possibile ignorarli. Anzi, appare opportuno soffermarsi sui significati che veicolano, al di là delle risate, più o meno amare, che suscitano, come espressione di una “cittadinanza sciocca” che attribuisce al cittadino digitale il potere di esaminare questioni altrimenti difficilmente accessibili».
La parola “meme” deriva dal greco mimema e indica “qualsiasi cosa sia imitata“. Il termine è stato ripreso dal biologo ed etologo britannico Richard Dawkins per spiegare la diffusione della cultura nelle nostre società come un processo nel quale le “unità culturali” si diffondono di “cervello in cervello” attraverso meccanismi di imitazione sociale. «Nel mondo delle piattaforme digitali – illustra Bracciale – i meme sono capaci di diffondere in tempi rapidissimi una narrazione collettiva, grazie al coinvolgimento di moltissime persone contemporaneamente. Hanno il potere di propagarsi trasversalmente tra contesti e attori sociali, celebrità e cittadini comuni, veicolando ideologie, critiche, proteste, messaggi di propaganda, o promozionali, spesso ammantati di un velo di satira e nonsense che ne favorisce la circolazione. La semplificazione tecnologica, nei fatti, ha reso possibile per chiunque partecipare ai flussi comunicativi “memetici” come creatori di contenuti (creators), sia attraverso l’uso di applicazioni già predisposte, dotate di cataloghi con “basi memetiche” tra cui scegliere e a cui aggiungere le proprie battute, sia con la loro semplice condivisione nelle piattaforme digitali, da Instagram a Facebook, fino ad arrivare a WhatsApp e Telegram».
La particolarità di questa “produzione” è che i meme non si limitano solo alle piattaforme digitali, ma quando diventano virali non possono più essere ignorati dai “media tradizionali” e dal sistema politico, obbligandoli in qualche modo a farsi carico di istanze che talvolta nascono e si sviluppano dal basso, dalla spinta dei cittadini uniti grazie all’infrastruttura tecnologica, e che si spostano talvolta anche offline.
«Basti pensare – argomenta la docente dell’università di Pisa – a quanto accaduto negli Stati Uniti con il caso Black Lives Matter che, attorno all’hashtag #BLM, ha aggregato milioni di persone in tutto il mondo che hanno espresso la loro posizione personale all’interno di una narrazione collettiva sviluppatasi prevalentemente nelle piattaforme digitali, attraverso la creazione di molti meme, ma tradottasi anche in partecipazione offline attraverso numerose manifestazioni di protesta. Si è passati in quel caso dai meme al coinvolgimento di tutti gli attori della sfera pubblica, seppur con obiettivi diversi: dalla comunità afroamericana, ai cittadini in generale americani, dalla politica locale fino a quella nazionale.
E questo ha influenzato anche le elezioni del novembre del 2020, rendendo evidenti forme di aggregazione forse più “disimpegnate” ma non per questo meno efficaci negli esiti civili e politici. Per comprenderne gli esiti, basta chiedersi: quante persone sono venute a conoscenza del movimento #BLM solo perché hanno visto nelle timeline dei loro social media questo hashtag e i relativi meme tra i temi maggiormente in voga (trending topic) e hanno iniziato a cercare di capire cosa stava accadendo, non solo negli Stati Uniti, ma anche nel resto del mondo»?
Consapevoli del ruolo che i meme possono svolgere nelle strategie comunicative contemporanee, i professionisti della comunicazione che sui social media si occupano dell’account Twitter ufficiale dell’Ucraina (@Ukraine) hanno iniziato a inserire i meme nei loro post di aggiornamento sulla situazione del conflitto con l’obiettivo di ottenere maggiore visibilità internazionale e di attirare l’attenzione mediatica e politica. L’uso dei meme nella comunicazione istituzionale del Governo ucraino, infatti, inizia ben prima del 24 febbraio 2022, data “ufficiale” dello scoppio del conflitto, attraverso una strategia consapevole e mirata a rendere evidente l’aggressività della Russia.
Già il 7 dicembre 2021 in un tweet dell’account @Ukraine viene utilizzata una forma memetica molto conosciuta in Internet come “Types of Headaches” (tipi di mal di testa, meme riportato di seguito).
«Il successo di tale produzione di “meme di guerra” – spiega la professoressa Roberta Bracciale – è testimoniato dall’elevato numero di persone che vengono raggiunte con un solo meme: più di 55 milioni, secondo i gestori dell’account. Si tratta di un engagement che sarebbe stato molto complicato ottenere attraverso l’uso dei canali tradizionali di comunicazione quali la televisione o la stampa quotidiana. La particolarità di questi meme è che vengono “taggati”, cioè citati direttamente, alcuni tra i principali media internazionali, quali Reuters, Associated Press, Cnn, Afp, Bbc, The Guardian, The New York Times e Financial Times. In questo modo si cerca di ottenere una copertura mediatica più ampia possibile, offrendo il proprio punto di vista e la propria lettura degli eventi in corso, tramite un semplice re-tweet». Questa scelta è funzionale sia al tentativo di sfruttare la logica dell’algoritmo – su cui si fondano i social media – che spinge ciò che diventa virale, e in base alla quale più interazioni ci sono con un post, più questo viene premiato in termini di visibilità e persistenza, sia perché attraverso la diffusione del proprio punto di vista l’Ucraina vuole richiamare la comunità internazionale a una responsabilità collettiva, cercando allo stesso tempo di depotenziare la narrazione di una Russia già vincente. Il sottotesto e il richiamo è alla storia di Davide contro il gigante Golia.
I meme, quindi, non sono solamente “prodotti leggeri” e di intrattenimento, ma sempre di più si configurano come elementi sociali e culturali delle nostre società. «Provando a sintetizzare le diverse funzioni che i meme ricoprono – conclude la professoressa Bracciale -, è possibile far riferimento a una doppia anima che li caratterizza: da un lato possono essere strumenti potentissimi per allargare la partecipazione sociale e politica, specialmente per quelle persone che sono disinteressate a tali aspetti. Attraverso i processi di appropriazione (framing) e reinterpretazione (reframing) dei temi all’ordine del giorno, i meme permettono infatti alle persone, interconnesse grazie alle piattaforme digitali, di sperimentare nuove modalità partecipative, di influenzare il dibattito pubblico, così come di far emergere nuovi temi all’ordine del giorno. Dall’altro possono essere “usati” da diversi soggetti per intervenire sulla formazione e trasformazione dell’agenda pubblica. Appare dunque quanto mai opportuno aver chiaro che, se i meme non sono in sé buoni o cattivi, non sono nemmeno neutrali».