Perché i millennials scelgono la CSR


L’81% dei millennials, cioè dei giovani nati tra la fine degli anni ’80 e il 2000, sarebbe disposto a pagare un sovrapprezzo per prodotti sostenibili, il 56% esclude a prescindere le imprese che non operano in modo sostenibile e il 49% ha rifiutato incarichi in contrasto con la propria etica professionale. A dirlo sono due ricerche del 2016. La prima di Pwc dal titolo “Think Sustainability – The millennials view” e l’altra di Deloitte “The 2016 Deloitte Millennial Survey” .

«Se è vero che si tratta di affermazioni un po’ celebrative e generiche che possono valere per tutti, è altrettanto vero che nel tempo queste stesse affermazioni sono in crescita e quindi costituiscono un trend», sottolinea Giorgio Fiorentini, docente del Dipartimento di Analisi delle Politiche e Management Pubblico dell’Università Bocconi di Milano.

Una sensibilità che diventa scelta

Meno celebrativi i risultati del report “Lo stato della Csr e della Rme nelle Business School e l’attitudine dei loro studenti” redatto da Debbie Haski-Leventhal e Julian Concato, docenti presso la Macquarie Graduate School of Management australiana. Lo studio ha coinvolto, tra il mese di ottobre 2015 e il mese di novembre 2016, 1.699 studenti di numerosi istituti in tutto il mondo, firmatari dei Principles for Responsible Management Education (Prme) delle Nazioni Unite.

Più dell’82 per cento dei ragazzi punta a un buon equilibrio tra lavoro e vita privata, l’84 per cento vuole vivere e lavorare in modo coerente con i propri valori, il 69,8 per cento si impegna a rendere il mondo un posto migliore, il 76,3 per cento vorrebbe essere fiero del proprio datore di lavoro (sono le percentuali di chi ha ritenuto questi temi “molto importanti” o “assolutamente essenziali”).

E per quanto riguarda la CSR, ovvero la Corporate Social Responsibility? Per il 92,1 per cento degli intervistati è importante lavorare per un’azienda responsabile a livello ambientale e sociale. Talmente importante da entrare a far parte, a pieno titolo, dei criteri con cui si sceglie il lavoro giusto per cui candidarsi. Più del 50 per cento degli intervistati sarebbe disposto a rinunciare al 20 per cento del proprio stipendio pur di lavorare in un ambiente con una buona Csr. Il 18,7 per cento sacrificherebbe addirittura il 40 per cento della remunerazione.

Per il 92,1 per cento dei giovani è talmente importante lavorare per un’azienda responsabile da entrare a far parte dei criteri con cui si sceglie il lavoro

Macquarie Graduate School of Management

Insomma, la sostenibilità è una priorità e c’è poca tolleranza per le disattenzioni. Secondo il 63,8 per cento degli intervistati, il successo di un’azienda è determinato anche da quanto sia responsabile a livello sociale ed etico e secondo il 73,6 per cento del totale le aziende dovrebbero fare molto di più per la società e l’ambiente. Solo il 15,8 per cento degli universitari ritiene che l’azienda debba sempre e comunque puntare ai profitti, anche a costo di infrangere le regole; sono molto di più, vale a dire più di sette su dieci, quelli che credono che CSR e profitti siano compatibili e che una buona etica corrisponda spesso a un business fiorente.

«Ormai non c’è dubbio che il tema della sostenibilità sia uscito dall’angolo. A livello universitario esistono moltissimi corsi sulla responsabilità sociale d’impresa. Il numero di tesisti eccede ormai la capacità di risposta degli atenei», chiarisce Mario Molteni, Professore ordinario di Economia aziendale presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e fondatore di Altis.

A testimoniarlo la nascita di gruppi come CSRnatives, un network, primo in Italia, che mette in rete gli studenti universitari appassionati di sostenibilità e lavora come piattaforma di confronto-incontro tra giovani e imprese responsabili che vogliono investire nei ragazzi e nella loro capacità di diventare innovatori sociali.

Dai giovani alle imprese

Un vento, quello dei giovani, che soffia forte. Ma le imprese che fanno? Stando a quanto scrive l’Harvard Buisness Review “le aziende che si assumono la propria responsabilità sociale presenterebbero tassi di turnover inferiori del 25 fino al 50 per cento, oltre ad avere meno difficoltà ad assumere e mantenere nuovi collaboratori”.

«Ho cominciato ad occuparmi di questi temi 20 anni fa», racconta Davide Dal Maso, partner e consultant di Avanzi, «le imprese che allora erano disposte ad ascoltarci erano un’eccezione. Oggi il rapporto si è invertito. L’eccezione oggi sono le imprese che non si pongono il problema. C’è stato un processo di accelerazione, che ha avuto il suo zenit nel 2015, che ha portato ad una vera e propria inversione a U».

Difficile dire quale sia stato il motore del cambiamento. «È complicato stabilire se sia stata la sensibilità delle nuove generazioni a spingere le aziende verso la sostenibilità o al contrario le aziende che abbiano fatto cultura. È un po’ come stabilire se sia venuto prima l’uovo o la gallina. A mio avviso si è trattato di un combinato disposto di fattori concomitanti. La domanda di prodotti e servizi e lavoro, un diverso atteggiamento del regolatore, con discipline sempre più ficcanti e invasive. Ma anche il ruolo della comunità finanziaria che sempre più riconosce a questi fattori di creazione di valore e generazione di rischio un ruolo fondamentale. Il risultato è stato un processo di consapevolezza che è finalmente uscito dal mondo scientifico e si è trasformato in movimento di massa».

Il modello Unilever

«Dal nostro punto di vista, la sostenibilità è un tassello irrinunciabile del puzzle, che ormai fa semplicemente parte del profilo di un datore di lavoro responsabile. Chi mette sullo stesso piano le esigenze delle persone e dell’ambiente attira anche forza lavoro qualificata in grado di agire e di pensare responsabilmente e di difendere i nostri valori». A dirlo è Gregor Stücheli, co-titolare e managing partner di Inventx, società elvetica di consulenza informatica per il settore bancario. «Chi è così vicino alla natura, come noi nella nostra sede di Coira, è naturalmente molto sensibile all’argomento sostenibilità e alla conservazione del nostro ambiente». A fargli eco, nel testimoniare come le cose siano cambiate nel mondo aziendale è Lorenz Isler, sustainability e public affairs manager di Ikea, che aggiunge: «Sempre più aziende capiscono che non è possibile aggirare la sostenibilità. La forza lavoro qualificata valuta sempre più spesso le aziende in base a principi etici e dà sempre più importanza all’approccio di sostenibilità del datore di lavoro».

Ma forse l’esperienza più significativa, anche come dimensioni è quella del colosso mondiale Unilever. Per capire di cosa si sta parlando basta dire che quando si scrive Unilever si dovrebbe leggere Coccolino, Svelto, Mentadent, Dove, Lysofom, Cif, Knorr, Calvé, Fissan, Sunsilk, Badessa. Ma anche Lipton, Algida, Cornetto e Grom. Stiamo parlando di una multinazionale che da oltre 50 anni è forse la più presente nella casa degli italiani. Ed è, stando a Del Maso, «il caso più eclatante di CSR portata al cuore della gestione aziendale».

Le aziende stanno scoprendo che i costi del non fare le cose stanno diventando sempre maggiore di quelli per farle

Angelo Trocchia

«Ognuno dei 5 stabilimenti italiani viene valutato ogni tre mesi a livello mondiale per vedere se rientrano nei benchmark. Ci sono target precisi da raggiungere, non solo in termini di redditività, ma con obiettivi sociali e ambientali che devono essere condivisi da tutti, in azienda. È una sfida quotidiana, in cui tutti i nostri operai e impiegati sono coinvolti. A Pozzilli, che non è esattamente Manhattan o Milano, funziona bene e infatti il nostro stabilimento è tra i migliori di Unilever in Europa». A parlare è Angelo Trocchia, presidente e AD di Unilever Italia, che racconta così come il colosso ha deciso di far diventare la CSR fattore di competitività fondamentale. «Le aziende stanno scoprendo che i costi del non fare le cose stanno diventando sempre maggiori di quelli per farle. Per questo noi abbiamo investito in efficienza energetica, in riduzione dei rifiuti, in risparmio idrico, in affiancamento ai produttori agricoli e delle materie prime, politiche climatiche e low carbon, controlli sulla qualità dei prodotti, ricerca sui materiali per gli imballi. Tutte opzioni dettate dalla necessità di migliorare il profitto e garantirsi un futuro a largo respiro e contemporaneamente anche scelte di sostenibilità, o responsabilità che dir si voglia».

«La nostra sostenibilità», conclude Trocchia, «parte da una responsabilità. Verso la società in cui si lavora e verso il territorio che si occupa. Poi c’è l’ambiente, che forse per noi italiani è l’area più semplice. Le nostre materie prime sono da fonti sostenibili. Il consumatore ce lo riconosce? È certamente più attento e cosciente, e, conti alla mano, evidentemente ci attribuisce la responsabilità che ci prendiamo».

Il managment del futuro

Come ogni cambiamento però comporta dei rischi. «È molto importante che cresca la consapevolezza», chiarisce Molteni, «Ma è altrettanto importante avere laureati in management che siano prima di tutto buoni uomini d’azienda. La sostenibilità deve essere una delle competenze non una specializzazione. La buona strada, è solo una: che la responsabilità sia una delle tappe della formazione. Non deve essere un fiume in cui si rimane tutta la vita ma una delle funzioni aziendali fondamentali da cui passare per imparare e formarsi». Anche per Fiorentini l’approccio deve essere più laico. «Non c’è dubbio che senza funzioni aziendali deputate non ci può essere innovazione sociale. E che dove c’è innovazione nasce una filantropia interna. Ma è capitale capire che tutte le aziende sono imprese sociali. L’innovazione sociale per me passa dalla capacità imprenditoriale delle aziende stese. Non è qualcosa in più. Anche le imprese for profit dovranno per questo avere indicatori di impatto. È questa la vera sfida: cominciare a ritenere tutto questo parte della normale gestione d’impresa».

Di |2024-07-15T10:04:37+01:00Agosto 3rd, 2017|Formazione, MF, Sostenibilità e CSR|0 Commenti
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