La globalizzazione si muove verso nuovi equilibri
Gli eventi degli ultimi due anni, tra la pandemia e il conflitto in Ucraina, hanno mostrato i limiti della globalizzazione. Il modello economico che ha permesso la crescita economica negli ultimi tre decenni sembra essere in crisi, muovendosi verso nuovi equilibri.
Il mondo di prima
Fino allo scoppio della pandemia, il commercio mondiale prosperava grazie alla presenza di pochi dazi doganali, alla mobilità – quasi illimitata – di beni e capitali e al basso costo del lavoro in alcune parti del mondo. Tutto ciò spingeva le aziende a delocalizzare la produzione e a coinvolgere un larghissimo numero di nazioni differenti nella fabbricazione di un singolo oggetto, creando così quelle che gli economisti chiamano «catene del valore globale».
Chi comprava era contento di acquistare beni a buon mercato; chi produceva era soddisfatto di contribuire a migliorare la condizione economica sua e del Paese in cui operava. Mentre le economie dei Paesi occidentali si spostavano verso la produzione di servizi, quelle dei Paesi emergenti – spesso geograficamente molto distanti da noi – accettavano di produrre per il resto del mondo.
Molti Paesi del Sud Est asiatico hanno potuto avviare così ingenti piani di sviluppo. Tra tutti, la Cina ne ha beneficiato moltissimo: la sua popolazione urbana è passata dal 19% del 1980 al 61% del 2020. Negli stessi anni, il reddito pro capite è cresciuto da 194 a 10.434 dollari, portando il Paese a diventare la seconda forza economica mondiale. Su scala minore, e in modo limitato ad alcune province, hanno approfittato di questo modello anche India, Tailandia e Malesia.
La ri-globalizzazione
Tutto questo ora però sembra sul punto di cambiare. Catene di approvvigionamento lunghissime, che attraversano fino a nove fusi orari differenti, sono entrate in crisi con i blocchi imposti dalla pandemia prima e dalla guerra poi. Molte aziende hanno quindi avviato un processo di reshoring, di avvicinamento dei fornitori.
Benetton, ad esempio, diminuirà la produzione in Asia entro la fine del 2022 spostandosi in nazioni più vicine quali Serbia, Croazia, Turchia e in Paesi del Nord Africa, come Tunisia ed Egitto. Molte altre aziende del settore dell’abbigliamento hanno annunciato che si muoveranno in modo simile.
Ma ci sono anche società che optano per il backshoring, ovvero il rimpatrio della produzione. Un esempio importante è Bianchi, storico produttore di biciclette lombardo, che ha scelto di ridurre la sua presenza a Taiwan riportando la produzione in Italia con un investimento di 40 milioni di euro per riqualificare il proprio stabilimento di Treviglio, che risale agli anni Settanta.
Avvicinarsi è un’esigenza per un doppio motivo. Dal punto di vista commerciale, la pandemia ha mostrato la fragilità di un sistema basato su fornitori distanti. La situazione è stata peggiorata anche dai costi decuplicati dei noleggi e dal blocco di uno scalo commerciale fondamentale come lo stretto di Suez con l’incaglio del mercantile Evergreen.
Tutti fattori che hanno fatto aumentare i costi e i tempi di attesa. Sotto il profilo strategico, il conflitto in Ucraina insegna che è meglio avere come partner Paesi affidabili dal punto di vista geopolitico. Lo dimostra il costo delle bollette, salito negli ultimi mesi a causa della eccessiva dipendenza europea dai beni energetici russi, ma anche le crisi in campo alimentare e agricolo data l’importanza dell’Ucraina come esportatore di grano, di fertilizzante e di sabbie per piastrelle.
Ad oggi, non a caso, ben 30 Paesi nel mondo hanno adottato misure protezionistiche nella produzione di cibo, bloccando le esportazioni. E le catene di fornitura si stanno ridisegnando dal grano al gas, fino al petrolio, tramite nuovi accordi con partner ritenuti più affidabili. È quello che alcuni definiscono anche come friendshoring.
È anche vero che le aziende usavano già in modo tattico le catene di approvvigionamento. Ad esempio, Adidas realizza i prodotti più sensibili ai trend della moda in Messico, così da servire in modo rapido e immediato il ricco mercato statunitense. Mentre ha posizionato la produzione di beni più classici, che meno dipendono dal marketing, nei Paesi del Sud Est asiatico.
Tuttavia, anche questo ora viene messo in dubbio, specialmente se Paesi tradizionalmente efficienti, come la Cina, decidono di chiudere le frontiere e di bloccare porti fondamentali, come quelli di Shanghai e Tianjin, per contrastare la diffusione del Covid.
Secondo gli esperti intervenuti al panel sul futuro della globalizzazione organizzato nell’ambito del meeting di Davos, stiamo vivendo in una situazione di flusso che porterà a nuovi equilibri. «Lo scorso anno sono stati scambiati beni per 28,5 trilioni di dollari, una cifra record», ha detto Pamela Coke-Hamilton, Executive Director dell’International Trade Centre, «e soprattutto la pandemia ha determinato una crescita senza precedenti dei servizi digitali. La globalizzazione dunque non è affatto morta ma è in uno stato di flusso e troverà nuovi equilibri a seconda dei settori e delle regioni».