La svolta sociale del personal branding
«Everyone has a chance to be a brand worthy of remark». Tutti quanti hanno la possibilità di essere un brand di rilievo. Lo scriveva Tom Peters, il CEO di FastCompany, nel 1997, quando pubblicò l’articolo The Brand Called You. È universalmente riconosciuta come la data di nascita del personal branding che, secondo la definizione originale, è il processo attraverso cui una persona definisce i punti di forza che la contraddistinguono in modo univoco, creando un proprio marchio personale, che comunica poi nel modo che reputa più efficace.
«Il personal branding adotta le tecniche utilizzate dal marketing per promuovere i prodotti commerciali e le adatta per la promozione dell’identità delle singole persone», spiega il sociologo della comunicazione, Andrea Fontana. «L’obiettivo in entrambi i casi è il brand positioning ovvero, posizionare nella mente dell’utente il brand o il nome del professionista associato a una precisa peculiarità, a un concetto che inequivocabilmente lo distinguerà dai concorrenti».
Naturalmente con l’avvento dei social network il personal branding ha subito enormi trasformazioni ed evoluzioni dando vita a tante sfumature della medesima attività di positioning. «Ci sono gli influencer che in qualche modo vendono se stessi. Altri influencer, come i virologi, invece vendono delle competenze. C’è poi chi ne fa un uso più classico, come gli imprenditori che veicolano con sé l’universo dei valori e dei temi che vogliono associati al proprio brand. E ci sono gli attivisti, cioè chi esce da una logica di mercato e si mette al servizio di una causa», aggiunge Fontana.
A sconvolgere però questo settore del marketing c’è stata la pandemia, che ha sovvertito completamente le narrazioni e quindi il modo con cui procedere nel divulgare il proprio brand personale. In particolare il Covid ha reso, tematiche che prima erano di comodo, di estrema attualità Il risultato è stato la nascita del social personal branding, in cui social non sta per social media ma per sociale.
Secondo Paolo Iabichino, direttore creativo e fondatore dell’Osservatorio Civic Brands, con Ipsos Italia uno dei casi più evidenti è rappresentato dai Ferragnez. «Fino a pochi mesi fa Chiara Ferragni e Fedez si imbarcavano disinvolti sui voli intercontinentali e sfilavano sul red carpet degli Oscar e del Festival del Cinema di Venezia. Ora le loro giornate – come quelle della stragrande maggioranza degli italiani – sono molto più casalinghe», sottolinea il comunicatore.
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«Anche le partnership commerciali sono cambiate. I brand del lusso hanno lasciato spazio alle marche di grande consumo. Eppure, i Ferragnez hanno dimostrato un’invidiabile capacità di risultare coerenti e credibili. Se qualcuno poteva obiettare che quella dell’influencer fosse una figura fin troppo “frivola” nel bel mezzo di un’emergenza sanitaria, loro hanno risposto mettendo la loro fama al servizio di due raccolte fondi a favore, rispettivamente, dell’ospedale San Raffaele di Milano e dei lavoratori dello spettacolo. Un impegno sociale premiato con l’Ambrogino d’Oro».
[legacy-picture caption=”Chiara Ferragni e Fedez” image=”ee0d9fd3-6e5c-44fa-a65e-c1314202a922″ align=””]Un altro campione del mondo del brand personale è Zlatan Ibrahimovic. «Approdato per la seconda volta al Milan proprio in concomitanza con l’esplodere della pandemia, si è prestato a sorpresa per diventare il volto della campagna anti-covid di Regione Lombardia. Una scelta a prima vista molto in controtendenza con lo storytelling con cui il campione svedese ci ha abituato in questi anni», racconta Mauro Berruto, ex allenatore della Nazionale italiana di pallavolo, già CEO della Scuola Holden di Baricco e comunicatore.
«Invece anche in questo caso l’operazione è molto riuscita:», continua Berruto, «a ben vedere non cambia il suo storytelling tradizionale, che rimane fatto di machismo e megalomania. Ma vi è un’aggiunta, quel connotato più ironico e divertente che di fatto riposiziona il tutto, e la cui motivazione è il veicolare un messaggio di utilità sociale. L’immagine pubblica del calciatore non perde di forza ma anzi ne esce rafforzata. Un’operazione per la verità che, i più attenti se lo ricorderanno, Ibra aveva già proposto con un celebre spot di Unicef ai tempi del Paris Saint Germain», conclude Berruto.
Discorso diverso, invece, per Roberto Burioni. «Nell’anno in cui i medici hanno conquistato le copertine delle riviste e i programmi di prima serata, Roberto Burioni si è esposto come paladino della scienza», torna a spiegare Iabichino, «ha deciso di vestire i panni del divulgatore con lo scopo di contestare e svelare le fake news circa il mondo sanitario. Con l’arrivo della pandemia si è posto come intermediatore tra il mondo scientifico, da cui ormai dipendono le nostre vite, e la gente comune. Nel suo caso, diversamente dai Ferragnez, l’attività di personal branding ha a che fare con le competenze e con una funzione sociale, nel senso di servizio pubblico, giocata sul piano dell’autorevolezza».
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Questa trasformazione non ha riguardato solo gli influencer. Anche noti imprenditori hanno sfruttato la chiave sociale per aumentare il successo dei propri marchi. Per Iabichino un esempio è Brunello Cucinelli, re del cachemire, che «è diventato anche il simbolo del capitalismo umanistico, raccogliendo l’eredità di Adriano Olivetti. Una promessa ingombrante che l’imprenditore umbro non ha mai disatteso, nemmeno nei mesi più duri della crisi. Anzi, verrà ricordato anche per la scelta di lasciare il ruolo di amministratore delegato a due quarantenni, Luca Lisandroni e Riccardo Stefanelli».
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L’altro peso massimo in questo campo è Leonardo Del Vecchio, patron di Luxottica, «che ha interpretato tra i primi e meglio di altri lo smartworking forzato. Nell’anno del distanziamento sociale, ha consolidato l’attenzione che ha da sempre verso le risorse umane del suo gruppo con un imponente piano welfare. Ha deciso di integrare il compenso fino al 100% di oltre 10mila suoi dipendenti in regime di cassa integrazione, riconoscendo inoltre un contributo welfare di 500 euro a tutti i dipendenti in attività ordinaria. L’intero gruppo dirigenziale si è ridotto del 50% lo stipendio. Un gesto forte, in un momento drammatico, da parte di un imprenditore illuminato. Senza dimenticare che ha donato ben 10 milioni di euro per la lotta al Coronavirus».
«Bisogna però sottolineare che la differenza tra i Ferragnez e gli imprenditori come Cucinelli e Del Vecchio sta nella ricaduta sociale interna ed esterna alle loro aziende. Fedez e Ferragni hanno operato un cambio di rotta nella loro attività di personal branding mentre Cucinelli e Del Vecchio hanno rilanciato su temi e impegni che li vedevano già protagonisti», chierisce Iabichino.
Un caso a parte è invece quello di Greta Thumberg, che appartiene alla schiera degli opinion leader. «Da un capo all’altro del Pianeta, i Fridays for Future continuano a spendersi per la causa del clima. Greta applica alla perfezione alcune regole base del personal branding: ha un’etichetta personale chiara, alcuni tratti visivi riconoscibili come le trecce e il cartello “Skolstrejk för klimatet”, competenze di alto livello e una forte coerenza», spiega Iabichino che aggiunge, «siamo in una casistica più simile a quella di Burioni rispetto che ai Ferragnez. La causa sociale qui è l’unico scopo del branding personale. Non c’è prodotto».
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Il successo di queste nuove strategie comunicative secondo Riccardo Bonacina, fondatore e presidente onorario di Vita, la testata del Terzo settore e dell’innovazione sociale si spiega con il fatto che «da una parte era un fenomeno nato prima della pandemia. Si era già capito che bisognava cambiare direzione. Basta pensare alle migrazioni e alle diseguaglianze divario sociale che sono dati fisici e carnali che viviamo quotidianamente. Era diventato evidente che non si reggesse più il paradigma secondo cui più aumentavano i guadagni più ci sarebbero stato qualcosa per tutti. Con il Covid è quasi un anno che siamo dentro a un tunnel che ha accelerato ancora di più questo bisogno di cambiamento. Che significa sostenibilità e equità.
Non mancano però i rischi. «Naturalmente», spiega Bonacina, «viviamo il rischio che se tutto è sociale niente lo è più. Stiamo assistendo al saccheggio di un certo vocabolario e di simboli, proprio del mondo sociale, da parte degli attori business. Un uso che ha svuotato di senso quella narrativa. Cosa potrebbe dire di più il WWF rispetto agli spot dei colossi dell’automotive e dell’abbigliamento? Questo implica nella comunicazione una capacità di trovare nuovi linguaggi e parole che smarchino il sociale genuino da ciò che non è autentico».
Per Marta Mainieri, docente dell’Università Cattolica ed esperta di economia collaborativa, «la condanna del personal branding è l’urgenza narrativa. Il demone di tutti è di trasformare qualsiasi tipo di azione in storytelling. Quindi anche la bontà di alcune iniziative, nel momento in cui vengono eccessivamente vetrinizzate, sortiscono l’effetto contrario. Non è un caso che Fedez non parli di fan o follower ma utenti».
Una certezza però rimane: «si tratta di un segnale forte», sottolinea sempre Mainieri «che non mi stupisce perché la consapevolezza oggi di come la responsabilità sociale sia importante per i consumatori comincia a fare breccia e a vedere applicazione concreta. Ormai tutti, soprattutto i più giovani, chiedono ai marchi di avere un ruolo attivo come attori del cambiamento. E sempre più per questo le aziende assumono su di sé l’onere dell’immaginare una proposta e un’azione».