Professione Street Food : camioncini e botteghe che cambiano la vita


Mollo tutto e apro un baracchino! Alzi la mano chi non ci ha mai pensato almeno una volta nella vita. E come dargli torto? L’attenzione per il cibo e la nutrizione, l’estensione del termine gourmet a piatti della tradizione (pizza e piadina su tutti) e il minor rischio a cui si va incontro aprendo un’attività di questo tipo rispetto al classico ristorante sono dettagli che fanno la differenza e possono rappresentare il primo passo per una storia imprenditoriale di successo. Botteghe, piccoli locali take away, baracchini e camioncini spopolano nel centro delle città e nei festival di tutta Italia.

E i numeri dello street food lo confermano. Secondo una ricerca condotta da Unioncamere relativamente al quinquennio 2013-18, le attività di questo tipo presenti nel Registro delle imprese sono passate da 1.717 a 2.729. Un boom di cui sono stati protagonisti giovani imprenditori e stranieri. Nel 22% dei casi, ad avviare un’attività di street food è stato un under 35, mentre i titolari non italiani nel 2018 risultavano 327. A livello geografico, Roma e Milano con 181 attività a testa guidano il podio seguite da Torino e Lecce. Dati che, per Unioncamere, sono destinati a crescere sulla scorta del processo di riscoperta delle eccellenze tipiche locali, sempre più amate da turisti e non.

Un boom di cui sono stati protagonisti giovani imprenditori e stranieri. Nel 22% dei casi, ad avviare un’attività di street food è stato un under 35

Non solo kebab e patatine fritte, insomma, la fantasia nello street food è la prima regola. Ne sanno qualcosa, ad esempio, quelli di “Trapizzino” che, partiti dal quartiere Testaccio di Roma, hanno conquistato Milano e Firenze prima del posto al sole all’interno di Mercato Centrale di Torino (dove ha aperto il secondo punto vendita della città aggiungendo anche un’offerta di vini selezionati). Al centro, ovviamente, il “trapizzino”: una tasca realizzata con l’impasto della pizza in cui vengono inseriti vari condimenti. Il tutto in uno spazio informale che diffida della standardizzazione a cui sono sottoposti alcuni marchi del food retail: «Noi non siamo un format, una catena: ogni nostro locale è diverso, è modellato sul posto, su una ricerca dei produttori, anche se i nostri grandi classici sono immancabili», ha spiegato Paul Pansera, cofondatore del brand.

Per chi fosse ancora legato all’immaginario del camioncino, invece, c’è Zibo e la storia di Giulio Potestà e Alessandro Cattaneo. Conosciutisi nel 2010 ad Alma, la Scuola Internazionale Di Cucina Italiana di Gualtiero Marchesi, i due amici cinque anni dopo hanno dato avvio alla loro attività su food truck coniugando alta cucina e tradizione popolare. «Il mercato oggi è saturo di proposte. Serve avere un’idea originale, saperla cucinare alla perfezione, valutare bene costi e ricavi ed esserne convinti», affermano i due.

C’è poi chi riesce a coniugare passione e digital disruption, come nel caso dell’imprenditrice romana Alessandra Bognanni che, con il suo Wok (acronimo che sta per World Oriented Kitchen) lanciato nel 2006 per proporre i sapori della Thailandia, è arrivata a conquistare anche i primi posti della piattaforma Deliveroo offrendo per la prima volta in Italia la cucina asian express. Ed oggi le raviolerie orientali, che offrono i classici dumpling da mangiare “al volo”, sono proprio uno dei maggiori successi imprenditoriali del food, da Milano a Roma.

Ha scelto invece il fusion tra messicano e giapponese il marchio Fusho, nato dall’incontro di tre giovani cinesi, Jay Lin, Alex Pan, Sam Ye, con il venticinquenne milanese Davide Croatto. Con il loro rotolo goloso, un po’ sushi e un po’ burrito, infarcito di ingredienti originali, dalla prima apertura del 2017 in via Paolo Sarpi a Milano, i quattro ragazzi sono già arrivati al terzo punto vendita nella città meneghina. Inserendo innovazioni importanti, come il qr code per il pesce, che permette di tracciarne la filiera e la provenienza.

C’è chi punta sui prodotti locali reinventati, chi sulla cucina gourmet a bordo di un camioncino, chi sul cibo cinese, chi ha mixato giapponese e messicano

A guardare allo street food, però, sono anche i grandi marchi della ristorazione organizzata che trovano in questo format la soluzione ideale per essere presenti in location diverse dal solito ristorante. È il caso del brand Löwengrube che, con i suoi wagon, ha conquistato l’ultimo Foodservice Award nella categoria “Ristorazione a tema” grazie a un’offerta riconoscibile (birra e wurstel): «Abbiamo chiuso il 2018 con un risultato record: 13,5 milioni di euro di fatturato su tutta la rete, +35% rispetto al 2017», ha affermato l’amministratore delegato Pietro Nicastro. Discorso simile per Tramé (vincitore nella categoria “Panini”), che ha esportato l’arte del tramezzino veneziano oltre la Laguna: «Il nostro punto di forza consiste nel saper coniugare tradizione e innovazione partendo da una ricerca quasi maniacale delle materie prime», ha rivelato l’ad Gianluca Balestra.

Ma non è tutto oro quel che luccica, nemmeno se spennellato con dell’olio di cottura. Contro lo street food, infatti, si è scagliata la Fipe (Federazione Italiana Pubblici Esercizi) che ha lanciato un appello per la concorrenza leale e la qualità. Firmatari, 80 chef di rilievo come Carlo Cracco, Claudio Sadler e Filippo Giordano. «Ogni giorno nelle scelte politiche si incentivano settori che effettuano di fatto somministrazione, senza essere sottoposti alle stesse regole che si applicano alla ristorazione e ai pubblici esercizi in generale. Ci riferiamo agli operatori del settore agricolo, ai circoli privati, al terzo settore, ai negozi di vicinato, agli home restaurant, allo street food, ecc.», si legge nel comunicato diramato dall’associazione a fine maggio. Un monito che, in un periodo di polemiche sulle aperture domenicali, potrebbe spingere a una legislazione più restrittiva per gli innovatori dello street food.

Di |2024-07-15T10:05:31+01:00Giugno 7th, 2019|futuro del lavoro, Lifestyle, MF|0 Commenti
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