La pubblica amministrazione a lezione di sostenibilità
Il dado è tratto: il 5 novembre si alza il sipario sulla prima edizione del diploma in esperto in sustainability manager della Scuola nazionale di Amministrazione della Presidenza del consiglio dei ministri. Le lezioni termineranno a metà aprile del prossimo anno. Sui banchi di scuola siederanno Dirigenti e Funzionari delle Amministrazioni centrali. Dietro la cattedra, nella veste di direttore scientifico del corso ci sarà invece Enrico Giovannini, ex ministro del Lavoro, già presidente dell’Istat e chief Statistician dell’Ocse. Giovannini oggi è il portavoce dell’Alleanza per lo sviluppo sostenibile che recentemente ha diffuso il rapporto 2018 sullo stato di avanzamento dell’Italia sulla strada degli obiettivi dell’Agenda 2030.
Partiamo dal corso che formerà i primi manager in sostenibilità della pubblica amministrazione. Da quale esigenza nasce questa iniziativa?
Sostanzialmente esistono due modi di interpretare questa funzione. Nelle imprese private più innovative il sustainability manager ormai lavora a stretto contatto con l’amministratore delegato con l’obiettivo di inserire i principi della sostenibilità in tutti i processi aziendali. In questo modo si supera l’idea della Corporate social responsability come un ambito aziendale a sé. Noi con questa iniziativa vogliamo contaminare in questo senso anche la governance delle pubbliche amministrazioni, a partire da quelle centrali.
Ci può fare un esempio concreto?
Quando ero presidente dell’Istat feci sostituire le bottigliette d’acqua con dei boccioni ricaricabili in modo tale da abbassare l’utilizzo della plastica. Bene quel meccanismo era più costoso delle bottigliette d’acqua. Io all’epoca, vista l’assenza di direttive specifiche per le pubbliche amministrazioni ho rischiato anche una denuncia per danno erariale. Il motivo? Facevo spendere di più.
Noi con questa iniziativa vogliamo contaminare in questo senso anche la governance delle pubbliche amministrazioni, a partire da quelle centrali.
Oggi però c’è una sensibilità diversa…
Sì, la sensibilità sta crescendo. Ma nella PA non ci sono ancora indirizzi precisi in questo senso. Lo scopo del corso è quello di colmare questa lacuna creando una sensibilità adeguata alla sostenibilità ambientale, ma anche sociale (pensiamo all’uguaglianza di genere) sui posti di lavoro afferenti alla Funzione Pubblica. Nel frattempo stiamo lavorando per provare a far inserire nei piani della performance, e quindi nella valutazione dei Dirigenti, criteri legati alla sostenibilità.
Allargando il quadro, avete recentemente presentato il rapporto di Asvis 2018. A che punto è l’Italia?
Mi faccia fare una premessa: l’Agenda 2030 non parla unicamente di questioni ecologiche o ambientali. È una precisazione importante da fare perché riconosce che la sostenibilità e la non sostenibilità dipendono da quattro pilastri: quello economico, quello ambientale, quello sociale e quello istituzionale. È sufficiente che uno di questi quattro pilastri ceda che l’intero processo di sviluppo viene giù. Detto questo e venendo alla sua domanda: si sono già persi tre anni per dotarsi di una governance che orienti le politiche allo sviluppo sostenibile. Il 2030 è dietro l’angolo e molti target vanno raggiunti entro il 2020. Oltre all’immediata adozione di interventi specifici in grado di farci recuperare il tempo perduto sul piano delle politiche economiche, sociali e ambientali. L’Italia sta perdendo la sfida dello sviluppo sostenibile. E anche negli ambiti in cui si registrano miglioramenti, a meno di immediate azioni concrete e coordinate, sarà impossibile rispettare gli impegni presi dal nostro Paese il 25 settembre del 2015, all’Assemblea Generale dell’Onu, con la firma dell’Agenda 2030. Serve dunque un urgente cambio di passo. Eppure sarebbe una grande opportunità per il nostro Paese. Purtroppo scontiamo tre ritardi.
Nell’immaginario collettivo non è ancora passato il concetto che la sostenibilità è un elemento di competitività molto più incisivo del taglio del costo del lavoro.
Quali?
Il primo culturale: nell’immaginario collettivo non è ancora passato il concetto che la sostenibilità è un elemento di competitività molto più incisivo del taglio del costo del lavoro, che vale il 20% dei costi di produzione, mentre con la circular economy, col taglio drastico dei costi delle materie prime, si incide sul restante 80%. Questo non è ancora percepito tanto è vero che gli indicatori di competitività degli economisti sono fondamentalmente basati sul costo del lavoro per unità di prodotto. Il secondo tema è quello della creazione di piattaforme comuni di eco-design. Il terzo punto ha a che fare con la politica economica: benissimo gli incentivi per l’industria 4.0. Ma io mi chiedo: oltre che alla digitalizzazione non si potevano legare anche alla sostenibilità?