Quando è l’azienda a dare lezione, il lavoro ci guadagna
Da qui al 2020, tutte le professioni cambieranno volto. Lo afferma un report del World Economic Forum, The Future of Jobs: nel giro di una manciata d’anni il 30% delle competenze oggi strategiche per svolgere qualsiasi lavoro sarà soppiantato da nuove skills, diverse da quelle richieste nel 2017. La vera novità è l’accelerazione con cui il cambiamento sta avvenendo: secondo lo stesso studio, la metà delle conoscenze acquisite oggi nel primo anno di università saranno vecchie ancor prima di arrivare alla laurea. Che ne è allora della formazione in un’epoca di rapidissima obsolescenza delle competenze? È questo il tema cruciale, confermato dai numeri – non nuovi ma sempre allarmanti – del mismatch: in Italia nei prossimi tre mesi il 38,8% delle assunzioni programmate dalle imprese sarà di “difficile reperimento”, in pratica posti vuoti. La ragione? In un caso su cinque, l’inadeguata formazione dei candidati.
In Italia nei prossimi tre mesi il 38,8% delle assunzioni programmate dalle imprese sarà di “difficile reperimento”, in pratica posti vuoti. La ragione? In un caso su cinque, l’inadeguata formazione dei candidati
Giovani ma con esperienza
A leggerlo negli annunci di lavoro sembra un paradosso: vogliono giovani, ma con esperienza. Invece è possibile, anzi necessario. L’alternanza scuola lavoro obbligatoria introdotta dalla Buona Scuola va in questa direzione: nell’anno scolastico 2015/16 il 45,8% degli studenti di terza, quarta e quinta superiore ha fatto esperienza di alternanza, contro il 18,5% dell’anno prima. Le polemiche non sono mancate, le proposte mediocri nemmeno, ma è un primo modo per misurarsi con il mondo del lavoro. In Puglia, ad esempio, nei Comuni di Galatone, Francavilla Fontana e Terlizzi gli studenti hanno pubblicato in formato open alcuni dati della PA, censendo b&b, lampioni e barriere architettoniche. «I ragazzi hanno imparato che si possono trasformare i dati grezzi in servizi per cittadini: gli servirà, perché questa sarà la “generazione del riuso”», spiega Pierfrancesco Paolicelli, formatore e consulente OpenData per la PA. L’altra carta giocata dal Governo è la revisione del vecchio apprendistato, per dare gambe all’idea che anche da noi si possa “imparare lavorando”, come in Germania. Nel 2016 sono stati attivati 8.800 contratti di apprendistato di primo livello (+33% rispetto al 2015), firmati da ragazzi giovanissimi, iscritti ai percorsi di istruzione e formazione professionale, con uno stipendio da 500 euro in su. «Le trasformazioni nel mondo del lavoro non sono uno switch, sono processi», afferma Antonio Bernasconi, direttore di Enaip Lombardia, una regione che da sola ha più apprendistati di primo livello di tutto il Centro Italia insieme, «nelle relazioni con le imprese abbiamo costanti sollecitazioni su come i settori si possono evolvere. Il pane andrà sempre fatto, la differenza è l’approccio: pensare al pane per celiaci o al pane utile, studiato con i medici dello IEO, ad esempio, con farine che aiutano le terapie».
Le imprese tra i banchi
Le imprese quindi fanno bene alla scuola? Dopo anni di sospetto reciproco, la risposta è sì. Non per nulla i percorsi formativi con il più alto tasso di occupazione d’Italia sono gli ITS, gli Istituti tecnici superiori: hanno una governance partecipata dalle imprese, il 65% dei docenti proviene dalle aziende e l’80% dei loro diplomati a dodici mesi dalla fine degli studi ha un lavoro.
«Se le imprese hanno bisogno di una determinata competenza, in poco tempo cerchiamo un esperto e forniamo un corso. Questo nelle scuole non è possibile, perché ci sono programmi rigidi», afferma Maria Carla Furlan, direttore dell’ITS di Jesolo, primo in Italia nel 2017 per tasso d’occupazione. Tutto vero, ma resta una logica di breve periodo per Piero Dominici, docente di Comunicazione Pubblica all’Università di Perugia: «proprio per la velocità del mutamento in atto, rischia di rivelarsi controproducente: assistiamo ad una sempre più rapida obsolescenza delle conoscenze e delle competenze necessarie, numerosi rapporti dicono che non siamo in grado nemmeno di immaginare i profili professionali futuri». L’intervento radicale sarebbe quello di metter fine alle «false dicotomie» su cui sono ancora imperniati i nostri sistemi scolastici e formativi, che soltanto a parole promuovono l’interdisciplinarietà: «Abbiamo un disperato bisogno di figure che riescano a coniugare le conoscenze e le competenze, la formazione scientifica e quella umanistica. Sapendo mantenere lo sguardo sui sistemi, sull’insieme, sul complesso, che non corrisponde alla somma delle parti. Nella società della conoscenza non è più sufficiente il sapere e il sapere fare: dobbiamo sapere e saper fare, ma anche saper comunicare il sapere e il saper fare».
[legacy-picture caption=”Il Laboratorio Elettricook di Galdus” image=”1256f5b0-27fb-4161-ac8f-d1dabfda7bae” align=””]Il futuro sarà ibrido
Serve un nuovo umanesimo, quindi, di cui scienza, tecnica e tecnologia siano parti integranti. Di saper fare siamo saturi, come dimostra la vita sempre più corta di tutto ciò che impariamo. Per Alessandro Fusacchia, ex capo di gabinetto del Miur e da poco advisor strategico per la nuova area educational di H-Farm, «in un mondo con tanti robot, per governare i processi occorre diventare “più umani”, sviluppare più empatia, essere emotivamente intelligenti. Le competenze che sono state più importanti per me sono la capacità di generare fiducia e di gestire la complessità. Il futuro appartiene a chi saprà mettere insieme mondi che oggi sono apparentemente distanti: archeologia e design, per fare un esempio. Però servirà essere bravissimi in tutte e due le cose».
Miriam Cresta invece è direttore generale di Junior Achivement Italia, portano nelle scuole il dispositivo della mini-impresa, quest’anno hanno lavorato con 18mila ragazzi: «In un contesto in cui non vale più il dire “faccio questa scuola e poi farò quel lavoro”, avere una competenza imprenditoriale è un valore. I giovani dovranno imparare a stare dentro percorsi di cui non si sa ancora l’esito, a stare là dove si sperimenta, facendo lavori che nemmeno il mercato sa ancora di cercare. Bisogna saperci stare e starci senza ansia», afferma. Non a caso allora il Politecnico di Milano e quello di Torino per completare la formazione dei loro cento migliori talenti di ogni anno stiano puntando sulla responsabilità sociale, sicuri che la comprensione della complessità sarà l’asso nella manica.
Mario Calderini, vicedirettore dell’Alta Scuola Politecnica, spiega che «la responsabilità sociale è figlia della comprensione della complessità. Con i ragazzi lavoriamo sul ruolo delle religioni nell’innovazione, li facciamo confrontare con temi di filosofia della scienza, gli sfidiamo a dare soluzioni di riqualificazione sociale e urbana in aree disagiate, anche lontane e drammatiche. Questo allargamento trasversale delle competenze è la vera sfida per il futuro».
Nella foto di apertura: ragazzi a lezione all'interno di un corso promosso da Cnos-Fap, l'ente di formazione dei salesiani