Remote leadership: la nuova frontiera nella gestione dei team
In futuro, smart working farà sempre più rima con smart leadership. Ne sono convinti Wayne Turmel, cofondatore del Remote Leadership Institute, e Kevin Eikenberry, uno tra gli executive coach più noti al mondo. In un libro uscito prima della pandemia, ma diventato un best-seller durante la crisi del Covid-19, i due ricercatori delineano i tratti di una nuova figura manageriale: il long-distance leader.
Letteralmente, un leader a lunga distanza. Una figura che, in un contesto lavorativo e aziendale che sta assumendo una forma sempre più ibrida e agile – secondo la formula «smart quanto basta, in presenza solo quando serve» – diventa fondamentale per la sopravvivenza stessa delle aziende. Ma che tipo di caratteristiche e quali competenze dovrebbe possedere un remote leader?
Questioni di questo tipo investono sempre più il mondo del lavoro. Un modo dove le aziende comprendono come sia diventata strategica la capacità di guidare team composti da persone che lavorano in città o nazioni diverse, spesso con differenti fusi orari, ma anche team in cui solo alcuni condividono il “vecchio” spazio fisico di lavoro. Uno spazio divenuto residuale anche in chiave strategica.
Il processo di disruption causato dal lockdown globale del 2020 ha portato, inoltre, a una più profonda comprensione del concetto stesso di leadership. Una leadership che, oggi, può essere rifocalizzata sul cosiddetto Three–O Model for effective leadership of remote teams.
Le tre “O” del modello sono: i risultati (outcomes), gli altri (others) e noi stessi (ourselves). Ogni «buona leadership», ovvero ogni leadership funzionale, deve tener conto di questo triplice fattore di efficacia non trascurando le interrelazioni tra le singole componenti delle tre “O”. In altri termini, un leader remoto potrà ottenere risultati duraturi e importanti solo se ha consapevolezza degli altri, dedicando attenzione ai loro bisogni, e se riesce al tempo stesso a costruire un “noi” a dispetto delle distanze e degli strumenti tecnologici usati dai membri del team per relazionarsi con fornitori e clienti, oltre che fra loro.
Quando tutti lavorano da remoto, le cose sono apparentemente semplici. Le cose si complicano quando si formano team ibridi, solo parzialmente dislocati. Un remote team, ha spiegato in più occasioni Kevin Eikenberry, è infatti un gruppo in cui anche un solo membro non lavora nello stesso luogo degli altri. Basta questo singolo elemento per rendere disfunzionali i vecchi modelli di comunicazione, di relazione e di condivisione delle scelte. In una parola: la vecchia leadership non funziona più.
Sia in contesti ibridi, sia in realtà di full remote working i nuovi remote leader ritengono che la chiave siano i risultati. Risultati declinati secondo l’acronimo “Smart”, ovvero: specific, measurable, actionable, realistic e time-driven. Nel caso del lavoro a distanza, la misurabilità e la fattibilità (l’aspetto realistic dei risultati), ritengono Turmel e Eikenberry, sono gli elementi con maggior criticità.
«Un obiettivo realistico – spiegano Turmel e Eikenberry – arriva al limite di ciò che crediamo possibile. Ma si può sempre creare un piano che lo renda raggiungibile». Il remote leader ha le competenze per creare quel piano. Tutto dipende da almeno quattro fattori:
- le performance precedenti («se l’anno scorso un membro del vostro team ha completato quattro progetti di miglioramento, altri cinque o sei potrebbero essere realistici, dieci no»);
- il livello di fiducia (collaboratori con un basso tasso di fiducia in se stessi abbassano la soglia degli obiettivi raggiungibili);
- la curva di apprendimento (l’asticella va alzata rispetto alla performace più recente, non sulla performance complessiva, perché solo così si possono valutare i miglioramenti incrementali);
- la visione del mondo del team: una vision condivisa è sempre, da sempre, la leva principale di ogni cambiamento. Ma a distanza è un collante decisivo, se non addirittura vitale.
Un leader a distanza riesce sempre a migliorare le performance del team, gestendone la complessità. Come? Attraverso una serie di regole, che durante la pandemia si sono rivelate importanti anche per evitare due tra le patologie organizzative più ricorrenti in contesti fortemente avanzati: il burnout individuale e il sovraccarico strategico dei team. Turmel e Eikenberry elencano alcune di queste regole. Regole che devono diventare dei must per ogni remote leader:
- pensare prima alla leadership, poi al luogo;
- accettare il fatto che dirigere a distanza richiede di dirigere in modo diverso;
- sapere che lavorare a distanza cambia le dinamiche interpersonali, anche se non lo si vuole;
- usare i mezzi e la tecnologia in modo efficace, altrimenti i mezzi e la tecnologia useranno noi.
In fondo, concludono Wayne Turmel e Kevin Eikenberry, la leadership in sé non è cambiata molto. Sono però cambiati i soggetti (ovvero la seconda e la terza “O”: others & ourselves) e sono cambiati, soprattutto, i risultati attesi (la prima “O”: outcomes). Si tratta di «fare le stesse cose, ma in modo diverso», capendo quanto sia oramai necessario un cambio di paradigma che permetta di passare da una mentalità collocata («colocated mindset») a una «mentalità remota» di leadership, dove “remota” ed “efficace” stanno diventando sempre più sinonimi.