La rigenerazione urbana, una rivoluzione da Placemaker
Se l’unità di misura con cui valutiamo lo spazio non è mai cambiata dall’introduzione del sistema metrico decimale – semmai è diventata più precisa grazie agli strumenti digitali -, è mutata, negli ultimi anni, la percezione che abbiamo degli spazi: se un metro quadrato è sempre, quantitativamente, un metro quadrato, un metro quadro di parco pubblico o di ciclabile in più e un metro quadrato di casa o di balcone in meno hanno fatto e stanno facendo una grande differenza.
Questo percorso ha subito un’accelerazione anche per via della pandemia, che ha cambiato il modo in cui guardiamo le nostre case: sta crescendo, ad esempio, la richiesta di tecnologie touchless che arrivano dopo lo sviluppo di quelle a comando vocale e quelle a riconoscimento facciale, di materiali dalle proprietà antibatteriche, come ottone e rame. L’abitazione è inserita in una zona di un paese o di un quartiere che a sua volta fa parte dell’ecosistema urbano più ampio: in quali luoghi potremmo voler trascorrere i prossimi decenni? E chi li sta pensando o progettando?
È il tempo dei Placemaker?
Dal 2020, con la pandemia e la mutata percezione degli spazi pubblici e privati, le città di tutto il mondo hanno cominciato a rimettere mano alle proprie strade, piazze e agli spazi pubblici. Ad esempio disegnando nuove piste ciclabili, anche provvisorie, oppure allargando i marciapiedi e chiudendo alcune strade alle auto per favorire biciclette e pedoni. L’altro fattore che ha reso il 2020 un anno interessante per lo sviluppo delle nostre città è che è stato l’anno in cui la mole dei materiali prodotti dall’uomo – dalle case alle infrastrutture, agli oggetti anche per contrastare il Covid – ha superato la biomassa vivente: gli esseri viventi e il mondo vegetale. Questo fatto chiama in causa gli urbanisti, i progettisti di spazi e chi politicamente quegli spazi li deve destinare: «Ecco perché credo che questa sia l’epoca di nuove figure professionali che ho ribattezzato Placemaker, ovvero gli “inventori dei luoghi che abiteremo” – spiega Elena Granata, docente di urbanistica al Politecnico di Milano – Il placemaker non costruisce, ma connette, re-inventa, rigenera e semmai deve togliere».

Elena Granata, docente di urbanistica al Politecnico di Milano e autrice di “Placemaker” (Einaudi, 2021)
Ma chi sono i Placemaker?
Innanzitutto questa figura non include solo architetti e urbanisti. I Placemarker possono essere animatori di comunità, imprenditori civili, sindaci che hanno la passione per la rigenerazione dei luoghi: «Persino amministratrici di grandi città come Yvonne Aky Sawyer che, dal 2018, guida Freetown, capitale della Sierra Leone. Stravolta dalle conseguenze della deforestazione, in soli due anni ha fatto piantare un milione di alberi. Un intervento che le ha consentito di mitigare l’impatto dei cambiamenti climatici, aiuta a ridurre le frane e protegge i bacini idrici», aggiunge la professoressa del Politecnico milanese, riferendosi a esempi raccontati nel suo ultimo libro. Se l’identikit del Placemaker è complesso perché inclusivo, alcuni esempi pratici aiutano a comprendere meglio – oltre a chi siano i Placemaker immaginati da Granata – cosa facciano: «De Urbanisten è uno studio d’architettura di Rotterdam che ha inventato le “piazze che si allagano”. Una strategia che permette alla città di trasformare un problema, ovvero le cosiddette “bombe d’acqua” che scaricano grandi quantità di pioggia in un arco di tempo molto ristretto, in una risorsa. Anziché affrontare questa criticità in maniera difensiva – spiega Granata – i De Urbanisten hanno immaginato e progettato una risposta empatica con la natura: piazze che trattengono l’acqua, permettono di usare questa risorsa per il gioco dei bambini e, successivamente, per irrigare il verde urbano. Perché in un’epoca di cambiamenti climatici non possiamo permetterci di sprecare l’acqua piovana».
La possibilità di cambiare è il fulcro dell’opera dei placemaker
Un altro esempio che la docente di urbanistica riporta riguarda il “Superkilen”, il parco pubblico progettato dall’architetto e designer danese Bjarke Ingels a Copenhagen. Quello che avrebbe potuto essere un semplice intervento di riqualificazione ha generato un luogo che, al tempo stesso, è parco, giardino, opera d’arte, pista ciclabile oltre che luogo d’incontro e condivisione. Non nel centro della capitale danese, ma nel quartiere semi-periferico di Nørrebro.
Ma esistono Placemaker italiani? «Certo, anche se il nostro Paese fatica a prendere in considerazione possibilità alternative a quelle intraprese sinora. Ma gli esempi ci sono. Si pensi al sindaco di Viganella, in provincia di Verbano, che ha progettato uno specchio in grado di riflettere i raggi del sole sulla piazza del suo paese altrimenti in ombra. Un progetto che porta speranza con una dose di ironia e pragmatismo. Oppure al Rione Sanità di Napoli, dove don Antonio Loffredo ha promosso un progetto per il recupero delle antiche catacombe cittadine e ha trasformato la sacrestia della sua chiesa in una palestra dove i giovani del rione si allenano a tirare di boxe. La sua, è un’attività che non parte dai luoghi, dalle strutture. Ma da quello che potrebbero sprigionare: la possibilità di generare un’attività economica, attrarre turismo di qualità, un’occasione di lavoro e riscatto per i giovani del quartiere», spiega la professoressa Granata.
La ri-progettazione degli spazi
Oggi la sfida è partire dalle persone e dalle relazioni economiche, sociali, ambientali non dalle strutture, dagli edifici. Recuperare un borgo abbandonato, ad esempio, ha senso solo se quel borgo potrà ospitare famiglie, se potrà essere accessibile, se consentirà alle persone che lo abitano di continuare a vivere la loro vita: «Il Placemaker, dunque, dis-urbanizza e de-cementifica, de-costruisce, demolisce e re-integra natura, ri-foresta e ri-pristina ecosistemi, progettando soluzioni ispirate alla natura per contrastare i cambiamenti climatici. Ma non si tratta solo di regolare gli spazi e delle funzioni da cui sono occupati: il vero focus è come funzionano nel corso della giornata. I tempi delle città sono cruciali – sottolinea Granata- . A che ora si entra in ufficio? A che ora si esce da scuola? È sensato andare tutti in ufficio per cinque giorni la settimana, otto ore al giorno intasando metropolitane e tangenziali? No, è folle. I mesi durante i quali si è fatto massiccio ricorso allo smart working hanno reso evidente che alleggerendo la pressione sulle città è possibile liberare spazi per il dehor di fronte al bar o per fare jogging».
Oggi però siamo così abituati a vivere nei centri urbani che dimentichiamo come le aree interne costituiscano il 60% del territorio nazionale: «Al netto di un’idealizzazione nostalgica, sembrerebbe che tutti vogliano riabitare i borghi abbandonati nel centro Italia, ci sono operazioni promettenti sulla carta, ma un po’ meno nella pratica. Il caso di Ollolai, nel nuorese, lo spiega bene: il paese è stato scena di un reality show olandese sul cambio vita; finite le riprese, gli aspiranti abitanti sono tornati a casa loro, perché la natura è bella, ma senza lavoro non si vive».
Investiremo nelle relazioni
Ripensare le città significa anche mettere al centro prospettive, esigenze e punti di vista diversi. Persino quando si tratta di spazzare le strade dopo un’abbondante nevicata: solitamente, le prime a essere pulite e rese accessibili sono le tangenziali e le strade ad alto scorrimento. Mentre le stradine nelle aree residenziali, le zone scolastiche, le piste ciclabili e i marciapiedi vengono lasciate per ultime. Mettendo così all’ultimo posto nella programmazione il “movimento di prossimità” di genitori che portano i figli a scuola, anziani e ciclisti: «A questo si aggiunge il fatto che abbiamo costruito troppo, e ci sono tanti spazi vuoti. Dobbiamo partire da quegli spazi vuoti, dalle ex imprese e industrie. Ma anche dagli spazi aperti, le piazze e le piste ciclabili. Questi sono bisogni primari», spiega Granata. Il pensiero va agli esempi in Italia ancora poco diffusi: «Esistono casi di placemaking nel mondo delle imprese civili o dell’innovazione sociale che inizia dal privato e nelle cooperative, sono giovani che magari hanno studiato all’estero, e potano a casa quella visione. Un esempio di placemaking sono le comunità energetiche, ma il PNRR non segue quella logica, anzi: finanzia sopratutto l’edilizia e le nuove costruzioni», chiosa in chiusura Granata.