Riunioni su Zoom e webinar, come cambia la comunicazione sul lavoro
Un po’ per necessità, un po’ per comodità, come funzionano i software di collaborazione e videoconferenza lo abbiamo imparato in fretta. A confermarlo sono i dati registrati da Aternity, società statunitense specializzata in digital experience management, che ha stilato una classifica con crescite a tre cifre. Dal 17 febbraio al 14 giugno, in termini di adozione e utilizzo, Teams ha messo a segno un +894% seguita da Zoom con un +677% e Cisco Webex a +451%.
A causa del passaggio alla smart working, queste soluzioni digitali hanno rappresentato per molti lavoratori l’ultimo residuo di una vita d’ufficio che ormai sembra lontana anni luce. A cambiare, però, non è stato solo il luogo in cui svolgere le proprie mansioni. Lavori di squadra, confronti, riunioni, colloqui, ecc. sono stati mediati da uno schermo: voi da una parte, il vostro interlocutore dall’altra. Entrambi a fissare una webcam come se ci si guardasse negli occhi ma attenti a scegliere il giusto sfondo. Tutti pronti a dire la propria ma solerti nel mutare il microfono così che le grida dei bambini intenti a giocare in salotto non diventino il nuovo claim dell’azienda. Desiderosi di vedersi e ascoltarsi per non sentirsi soli ma insofferenti alle campane che rintoccano in sottofondo. Insomma, una vera e propria fatica questa comunicazione virtuale, altro che sintomo di un nuovo e sostenibile bilanciamento del rapporto vita-lavoro.
«Con la comunicazione non avviene semplicemente uno scambio di informazioni, anche non verbali. Si avvera una conciliazioni di diverse intenzioni, emozioni, meta-linguaggi, in un flusso continuo e primordiale solo parzialmente sostituibili da software mediatori», afferma Pier Giovanni Bresciani, presidente di Siplo (Società Italiana di Psicologia del Lavoro e delle Organizzazioni). Non sorprende, quindi, che dopo l’entusiasmo iniziale ora si rincorrano le testimonianze di una maggiore complessità nella gestione comunicativa a prescindere dalla natura dell’attività svolta.
La comunicazione a distanza non può essere ritenuta parziale, rispetto a quella in presenza, ma richiede un notevole sforzo meta-comunicativo per compensare le modalità differenti
Dal rapporto studente-professore a quello dipendente-titolare, la tecnologia supera limitazioni e distanziamenti fisici ma non consente di conciliare «il conflitto intrinseco alla comunicazione stessa». Una difficoltà che si accumula se si pensa a tutti i mezzi utilizzati per tenersi in contatto: mail, messaggi, WhatsApp, webinar, ecc. «ogni diversa funzionalità richiede uno sforzo cognitivo distinto, mentre nelle comunicazioni di persona le diverse modalità sono per lo più integrate fra loro tanto da essere sotto la soglia della completa consapevolezza», aggiunge Bresciani. Tutta una questione di digital divide? Solo in parte. «Non è sufficiente possedere i migliori mezzi o le migliori competenze digitali possibili per liquidare le problematiche strutturali della cognizione e della comunicazione umana», sostiene Bresciani. Necessaria un’attenzione alla progettualità del lavoro che integri le nuove modalità di connessione e collegamento con l’organizzazione, il gruppo e l’individuo di riferimento.
Dall’altro lato della barricata, anche il singolo individuo è chiamato a uno sforzo ulteriore. Prendiamo l’esempio del webinar, appuntamento che ormai punteggia le agende digitali di molti professionisti. «Nei panni del follower – spiega Bresciani – si può scegliere se e quando interagire, con chi, se a voce o in forma scritta, oppure decidere di compiere attività in parallelo, visualizzare la registrazione del webinar in modalità asincrona, ecc. Ognuna di queste possibilità in contesti professionali richiede uno sforzo di autoriflessività riguardante il proprio ruolo, oltre che le capacità critiche per adattare la propria attività all’obiettivo per il quale si partecipa al webinar».
Ecco, allora, che passando ad attività più complesse che richiedono scambi comunicativi più fitti e con un maggiore numero di persone, emergono effetti come quello del divergent think (un processo alla base della creatività e favorito dal conflitto comunicativo interpersonale) e del group think (un conformismo decisionale anche potenzialmente negativo, che a seconda di come viene gestita la call può essere evitato o esacerbato). Fenomeni che, durante una conversazione in presenza, potrebbero essere più facilmente identificabili e gestibili grazie al naturale feedback (anche non verbale) che avviene fra due interlocutori. Niente di banale, insomma. «La comunicazione a distanza non può essere ritenuta parziale, rispetto a quella in presenza, ma richiede un notevole sforzo meta-comunicativo per compensare le modalità differenti. In questo scenario, i professionisti con meno difficoltà sono quelli con migliori competenze autoriflessive, critiche, meta-comunicative, e che riescono ad applicarle efficacemente non solo a scopo di economia cognitiva ma anche in integrazione con l’intelligenza emotiva per riuscire a svolgere un’attività non solo produttiva ma anche esistenzialmente positiva», conclude Bresciani.