Fidelia Cascini: “La salute digitale ha bisogno di evangelist”
Una delle parole più ricorrenti, nello speciale vocabolario della pandemia, è senza dubbio “digitalizzazione”.
Gli italiani hanno infatti cominciato a capire che il futuro della loro salute passa necessariamente da questa modalità di approccio e di erogazione servizi. Un futuro che avrà bisogno di nuovi professionisti.
Un domani in digitale che abbraccia le cose relativamente più semplici, come le televisite e la disponibilità di un fascicolo elettronico, ma anche i grandi scenari della medicina predittiva, che potrebbe rendere la prevenzione una realtà concreta e non semplicemente uno slogan. Una prospettiva, quella della e-Health, come la si definisce nel mondo, che sarà guidata anche dallo sviluppo del Piano nazionale ripresa e resilienza – PNRR, con i suoi obiettivi e le sue scadenze. Uno scenario che, giocoforza, lancerà alcune professioni, ne rilancerà altre o inventerà del tutto nuovi mestieri.
Ne abbiamo parlato con Fidelia Cascini, ricercatrice e docente di Igiene e Sanità Pubblica Pubblica dell’Università Cattolica di Roma.
Cascini, esperta di sanità digitale, risk management e responsabilità sanitaria, collaboratrice di Walter Ricciardi, che ha svolto e diretto progetti internazionali per la Commissione Europea, è digital health expert del Ministero della Salute.
Professoressa, il Covid ha accelerato un processo, quello della digitalizzazione, che procedeva lentamente.
La pandemia ha certamente determinato un’accelerazione. Pensiamo alla telemedicina che, in certi momenti di quarantena, in cui l’accesso agli ospedali era difficoltoso, è stato il modo per rispondere alla domanda di salute di molti, e ricordiamo il diffondersi di app per l’accesso ai servizi e all’erogazione degli stessi. Ora poi, con il varo del PNRR, ci sono grandi opportunità ma anche vincoli legati a questa azione.
Opportunità perché ci sono risorse ingenti e vincoli per criteri di spesa e tempistiche.
Solo sulla telemedicina ci sono 1,5 miliardi da investire in progetti regionali entro il 2023 per potenziare l’assistenza sanitaria sul territorio. Inoltre, dobbiamo immaginare un grande cambiamento, non solo nella erogazione dei servizi ma anche per la disponibilità di strumenti teoricamente più semplici, come il fascicolo sanitario elettronico, che dovrebbe contenere le informazioni sulla salute di ognuno di noi. Può essere preso ad esempio per capire il cuore della questione.
Vale a dire?
È stato adottato in tutte le regioni, seppure in tempi diversi e quattro di esse si avvalgono del supporto di strutture centrali in sussidiarietà. Purtroppo però di fatto non è utilizzato pienamente dagli operatori, che hanno bisogno di una strumentazione tecnologica minima per accedervi ma soprattutto, così com’è ancora strutturato, è solo un grande serbatoio di documenti, un grande archivio: bisognerà trasformarlo utilizzando metadati interoperabili, per favorire lo scambio e la gestione di informazioni per finalità clinico-assistenziali, e anche per usi secondari come la ricerca.
E negli ambiti di cura, che cosa accadrà?
Tutta la pratica clinica dovrà esserne investita: occorrerà formare gli operatori ma anche adeguare le infrastrutture digitali, creando ambienti facilitanti l’uso quotidiano degli strumenti tecnologici a disposizione. Insomma, non possiamo immaginarci la digitalizzazione come grande archivio di file pdf da sfogliare, uno a uno ma, appunto, un luogo che consenta lo scambio e la interazione fra professionisti sanitari e pazienti, centri, ospedali. Lo stesso fascicolo sanitario elettronico, che citavamo prima, vede medici di medicina generale e pediatri di libera scelta piuttosto restii ad aggiornare i dati dei pazienti, proprio perché la modalità di utilizzo risulta difficoltosa e richiede un tempo eccessivo.
E non c’è da inventare perché, a livello europeo, si parla già di open standard, di ecosistemi sanitari digitali integrati su scala nazionale e di ricette elettroniche interoperabili tra diversi Paesi: bisogna essere rapidi a recepire.
Occorre intervenire sull’alfabetizzazione digitale degli operatori sanitari…
Sì, su vari fronti. Una parte del bisogno formativo è previsto dallo stesso PNRR, proprio per aiutare la formazione verso la tecnologia. Su questo punto però sono tutte le articolazioni sanitarie dei territori a doversi mobilitare, immagino che ogni singola azienda sanitaria, ogni ospedale, dovrà avere task force dedicate a questo processo di change management, a immaginare soluzioni ma, sullo sfondo, ci vuole una grande evoluzione culturale di tutto il sistema Paese, in modo da accompagnare i cambiamenti e gli strumenti a un approccio nuovo. E qui occorrerà mettere in campo una grande campagna di comunicazione, in grado di veicolare i messaggi giusti. Perché ogni grande cambiamento, lo sappiamo, richiede di affrontare qualche resistenza.
Comunicare un grande cambiamento. Quali leve usare a questo riguardo?
Occorre veicolare il messaggio, reale, che il digitale porta vantaggi, che può impattare positivamente sulle nostre vite, rendendole più facili. Far capire ai pazienti che la loro salute potrà trarne giovamento. Occorre cioè una grande azione di digital health literacy, come la chiamano gli anglosassoni. Perché il quadro italiano è costituito da basse competenze digitali, per le quali siamo ultimi in Europa e, per quanto siamo ormai tutti iperconnessi, per quanto siamo persino soliti chiedere le previsioni del tempo o un brano di musica a un assistente vocale in salotto, sulla salute permane una certa resistenza perché ci sono routine consolidate.
Insieme alla formazione del personale, prevista nelle azioni del PNRR sull’eHealth, occorrerà reperire queste figure professionali, che potremmo definire facilitatori.
E le professioni che dovranno guidare questi processi? Lei immagina degli evangelist che operino a vari livelli in tutti i contesti?
Il nòcciolo del problema è questo: queste professionalità mancano. A novembre 2021 è stato pubblicato dal Governo il Piano strategico sull’Intelligenza artificiale 2022-2024. Prevede il reclutamento di profili di un certo livello, come PhD e giovani ricercatori, proprio perché ci siamo scontrati con la mancanza di questo tipo di talenti, molti dei quali sono da noi formati per poi essere assunti. Questa è davvero una questione aperta, nel senso che, insieme alla formazione del personale – prevista nelle azioni del PNRR sull’eHealth – occorrerà reperire queste figure professionali, che potremmo definire facilitatori.
Quale è il ruolo del mondo universitario, in questa fase?
Soprattutto quello di stimolare le istituzioni e i decisori politici, offrendo tutta la competenza possibile, negli ambiti e nei tavoli che devono lavorare su queste tematiche. Per tornare alla pandemia, dalla quale siamo partiti, il ruolo degli accademici sarò proprio quello di evitare – anche sul tema della digitalizzazione – l’infodemia, ossia il caos informativo, che ha accompagnato questa importante esperienza sanitaria del Covid-19.
Foto in apertura di Hush Naidoo Jade Photography per Unplash