Smart working fase 2: promosso per imprese e lavoratori, ma c’è l’incognita del caro energia
Telelavoro, home working, lavoro agile o da remoto: abbiamo tutti ben chiaro quale sia stato uno degli impatti principali della pandemia da Covid-19 sulle nostre vite.
Lo smart working, prima come necessità obbligata e successivamente come implementazione delle tradizionali pratiche lavorative, si è imposto prepotentemente nella routine di ognuno di noi, portando milioni di persone alla scoperta dei suoi benefici – prima impensati – ma anche, inevitabilmente, dei suoi lati più problematici e dei potenziali rischi.
In generale, lavoratori e imprese, in Italia, promuovono lo smart working. Secondo il rapporto “Attualità e prospettive dello smart working. Verso un nuovo modello di organizzazione del lavoro?” dell’Inapp (Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche), due terzi dei datori di lavoro sono concordi nell’affermare che la modalità del lavoro flessibile incrementi la produttività e permetta di risparmiare nella gestione degli spazi fisici. Per il 72% di essi, inoltre, lo smart working incrementa il benessere organizzativo e migliora l’equilibrio vita-lavoro dei dipendenti. Le imprese che lo hanno adottato, infatti, vogliono continuare a impiegarlo: aumenta la responsabilizzazione dei lavoratori e porta a una maggiore efficacia nel conseguimento degli obiettivi.
Per quanto riguarda i dipendenti, invece, un aspetto importante è costituito dal miglioramento generale della qualità della vita lavorativa. Secondo l’80% dei lavoratori, lo smart working migliora l’organizzazione e consente di gestire in modo più efficace gli impegni privati, mentre il 72% afferma che la modalità di lavoro agile consente una maggiore autonomia. Sui metodi, sugli orari, sui ritmi, e soprattutto sugli spostamenti (90%).
Il lavoro ibrido, con l’alternanza della prestazione in ufficio e da remoto durante la settimana, può rappresentare una soluzione efficiente per soddisfare sia le esigenze dei lavoratori che quelle delle aziende.
Sebastiano Fadda, Presidente Inapp
Certo, non è tutto rose e fiori. L’utilizzo emergenziale dello smart working e la sua applicazione su vasta scala anche dopo la fine del picco pandemico hanno sicuramente portato a riconsiderare il paradigma lavorativo tradizionale, ma hanno anche messo in luce le aree critiche su cui in futuro occorrerà intervenire. Durante l’emergenza sanitaria la modalità di lavoro agile è stata utilizzata infatti nella sua forma semplificata, senza un accordo tra le parti, e si è tradotta soprattutto in home working, con tutte le improvvisazioni del caso.
I lavoratori hanno poi dovuto affrontare mutamenti importanti nella propria routine di vita, intervenendo sulla propria autonomia e dovendo fronteggiare un nuovo equilibrio tra attività privata e lavorativa. Ciò comporta una serie di preoccupazioni, come quella riguardo la riduzione della socialità professionale: il 64,7% degli smart worker teme il senso di isolamento e il rischio di essere marginalizzati sul lavoro, mentre è alta la convinzione (62%) che il lavoro agile non faciliti i rapporti tra pari o con i propri responsabili.
«Bisogna evitare di riportare indietro le lancette dell’orologio. Se con la pandemia il lavoro agile ha permesso la salvaguardia di molti posti di lavoro, adesso bisogna puntare a migliorarne i processi produttivi continuando a favorire la digitalizzazione e a investire sulla organizzazione smart del lavoro, modalità che avvantaggia sia le imprese che i lavoratori», ha sottolineato Sebastiano Fadda, Presidente dell’Inapp. «La sfida oggi è la messa a regime ottimale, valorizzandone le opportunità e superando i nodi critici. In questo senso il lavoro ibrido, con l’alternanza della prestazione in ufficio e da remoto durante la settimana, può rappresentare una soluzione efficiente per soddisfare sia le esigenze dei lavoratori che quelle delle aziende».
Una delle maggiori minacce allo sviluppo dello smart working nel futuro è però data dal caro energia. Il 55,3% dei lavoratori ha dichiarato infatti che lo smart working aumenta i costi fissi, ovvero le spese per internet e, soprattutto, luce e gas. Sì, perché se prima dell’esplosione del lavoro agile i costi energetici e di gestione erano a carico dell’azienda, la normalizzazione dello home working ha costretto i lavoratori a sobbarcarsi spese prima tenute fuori dal conto complessivo. Anche alla luce delle prospettive per l’inverno, con i timori derivanti dall’aumento delle bollette, secondo il rapporto Inapp solo il 20% dei dipendenti è disposto a guadagnare meno pur di lavorare in remoto alcuni giorni della settimana.
In conclusione, da quanto si è potuto apprendere fino ad oggi, lo smart working è forse una delle più grandi opportunità per la società tra tutti gli esiti della pandemia da Covid-19. Può migliorare sensibilmente la vita delle persone, e andare incontro alle esigenze delle imprese. Può portare allo sviluppo della digitalizzazione, sia nel settore privato sia nei servizi pubblici, e può ridurre sensibilmente l’impatto ambientale causato dagli spostamenti casa-lavoro. Può riqualificare le aree periferiche, favorire gli spazi di coworking e il ripopolamento di aree meno sviluppate (si pensi per esempio al cosiddetto southworking).
Bisognerà essere però molto attenti a costruire modelli di lavoro agile che valorizzino quanto appreso e sviluppare strategie ibride che possano superare le evidenti criticità emerse in questi anni, figlie anche della modalità emergenziale con cui lo smart working è entrato a far parte della vita di tutti i giorni.