Smart working, così si dice addio al vecchio paradigma del lavoro


Si scrive smart working, si legge lavoro agile. E in Italia è ormai una realtà consolidata. Abbiamo una legge dedicata (n.81/2017), cresce il dibattito sul tema nelle aziende private e nella pubblica amministrazione, e le sperimentazioni nelle imprese continuano ad aumentare. Secondo l’ultimo rapporto dell’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano, il numero dei lavoratori che godono di autonomia nelle scelte delle modalità di lavoro è aumentato del 14% rispetto al 2016. Gli smart worker italiani sono ormai un esercito di 305mila individui.

«Lo smart working in Italia non solo è cresciuto quantitativamente, ma è maturato anche dal punto di vista qualitativo», spiega Mariano Corso, responsabile scientifico dell’Osservatorio Smart Working. «Soprattutto nel mondo delle grandi imprese, è ormai un fenomeno mainstream». Il 36% delle grandi imprese italiane ha già lanciato progetti strutturati (erano il 30% nel 2016), e ben una su due ha avviato o sta per avviare un progetto di smart working. Non solo. «Le aziende che avevano già avviato sperimentazioni di smart working ora stanno ampliando il numero dei lavoratori coinvolti», prosegue Corso. «Nelle aziende del settore dei servizi, dove il lavoro si presta a una facile remotizzazione, le percentuali raggiungono quasi il centro per cento dei lavoratori. Sono invece più basse nella manifattura».

Il fenomeno cresce anche nelle piccole e medie imprese italiane, sebbene a prevalere siano ancora gli approcci informali: il 22% ha progetti di smart working, ma solo il 7% lo ha fatto con iniziative strutturate. Ma la grande novità è la diffusione del fenomeno nella pubblica amministrazione. Hanno avviato sperimentazioni di smart working anche alla presidenza del Consiglio dei Ministri, al Ministero dell’Economia e nei grandi Comuni italiani. «Stanno partendo programmi estremamente strutturati e normati che ci fanno prevedere l’esplosione dello smart working nella PA», dice Corso. «D’altronde c’è una direttiva del ministro Marianna Madia che dice che nei prossimi due anni almeno il 10% dei lavoratori della pa deve poter godere di forme di lavoro flessibile».

La grande novità è la diffusione del fenomeno nella pubblica amministrazione. Hanno avviato sperimentazioni di smart working anche alla presidenza del Consiglio, al ministero dell’Economia e nei grandi comuni italiani.

Mariano Corso, Osservatorio Smart Working – Politecnico di Milano

Ma non è solo una questione di numeri. «Le aziende pioniere dello smart working si sono rese conto delle potenzialità di questo nuovo approccio, e di come questa nuova modalità di lavoro abbia innescato un change management complessivo, stimolando la creatività e l’impegno tra i lavoratori», spiega Corso. E i feedback sono tutti positivi. «Lo smart working crea engagement tra i lavoratori, stimolando nuovi modi di fare le cose e un maggiore coinvolgimento nell’innovazione tecnologica delle imprese. Mettere in discussione le convenzioni, guardando ai risultati e non alle ore che si passano dietro la scrivania, fa crescere la creatività e il clima di fiducia sul posto di lavoro».

Accedere a forme di smart working resta una scelta del lavoratore, che così può conciliare anche meglio la vita privata e quella lavorativa. Così i lavoratori si rendono conto ad esempio che fare sempre riunioni dal vivo a volte può far perdere tempo, e scoprono invece l’utilità di fare una riunione mentre si passeggia sul terrazzo di casa. «Se prima strumenti come le conference call erano qualcosa di imposto, di cui non si comprendevano le potenzialità, ora ci si ingegna per sfruttare al meglio la tecnologia disponibile. E anzi, per migliorarla». E questo favorisce anche una maggiore collaborazione tra colleghi, spingendo alla «umanizzazione dell’organizzazione».

Nell’evoluzione del fenomeno, ha inciso molto anche la legge sul lavoro agile italiana, che ha un impianto moderno, anche più di quello dei testi equivalenti di altri Paesi europei. Non che prima lo smart working non si potesse fare, ma la normativa ha dato la spinta a molti datori di lavoro.

La chiave dello smart working è la cultura del risultato, con il superamento della subordinazione stretta.

E i benefici economico-sociali potenziali sono enormi: l'adozione di un modello “maturo” di smart working per le imprese può produrre un incremento di produttività pari a circa il 15% per lavoratore, che a livello di sistema Paese significano 13,7 miliardi di euro di benefici complessivi. Per i lavoratori, anche una sola giornata a settimana di remote working può far risparmiare in media 40 ore all’anno di spostamenti; per l’ambiente, invece, determina una riduzione di emissioni pari a 135 chilogrammi di anidride carbonica all’anno.

Di per sé, però, intraprendere un percorso di smart working non è garanzia di un cambio di paradigma. Nonostante i numeri in crescita, sono ancora pochi infatti i progetti di sistema che ripensano i modelli di organizzazione del lavoro ed estendono a tutti i lavoratori flessibilità, autonomia e responsabilizzazione. «La chiave dello smart working è la cultura del risultato, con il superamento della subordinazione stretta e della passività del lavoratore», spiega Corso. «Inutile dire che si fa smart working se si applica semplicemente il telelavoro o si rendono più colorati gli uffici; occorre piuttosto un parallelo ingaggio del lavoratore in un clima di fiducia e di sviluppo del talento individuale». Lo smart working si attua «non quando lavori da casa, ma quando c’è un accordo diverso su come si lavora: ti misuro sui risultati, indipendentemente da dove e come lavori, comprendo il talento e lo faccio sviluppare».

Anche i manager devono cambiare faccia: «Non sono più i controllori, ma guardano ai risultati, stimolando i talenti interni anche con progetti di apprendimento e formazione continua». E l’azienda, ovviamente, ne beneficerà.

Di |2024-07-15T10:04:47+01:00Dicembre 6th, 2017|Human Capital, MF, Smart Working|0 Commenti