Smart Working, un equivoco nato in pandemia


«La teoria sull’homo faber ha segnato uno dei momenti cruciali della storia umana. Per come stanno le cose oggi potrebbe darsi che si faccia avanti una nuova epoca in cui la produzione sarà completamente automatizzata e in cui l’unica specificità dell’umano sarà il consumo. La pandemia ci mette davanti a un bivio: quale modello di lavoro ci vogliamo dare in futuro?». Così il filosofo torinese Maurizio Ferraris, ordinario di filosofia teoretica presso la Facoltà di Lettere e Filosofia, analizza il momento storico che stiamo vivendo, in cui, a causa della pandemia, uno dei pilastri della vita di ciascuno, il lavoro, ha vissuto un forte sconvolgimento che sta impattando con violenza sulla vita quotidiana delle persone. Al centro di questa rivoluzione c’è una parolina magica: “smart working”. Ovvero l’ufficio che entra in casa. Ragiona Ferraris: «Si dice che questo virus sia stato l’acceleratore di un fenomeno che era già in corso. Ma bisogna intendersi su quale fenomeno stiamo considerando. Quello a cui stiamo assistendo oggi è la “disseminazione del lavoro”. Vien meno la distinzione fra tempo lavorativo e vita privata. Si considera che ogni mansione professionale o domestica possa essere svolta in qualunque momento. Oggi abbiamo un compito: analizzare il fenomeno in tutta la sua complessità, senza dare etichette preconfezionate, perché siamo di fronte a un cambiamento radicale della nozione di lavoro».

Smart working o telelavoro?

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A mettere il dito nella vera piaga dello smart working all’epoca del virus interviene Paola Profeta, professore associato di Scienza delle Finanze all’Università Bocconi: «Non è facile cogliere le differenze tra smart working, lavoro agile o telelavoro. Per smart working si intende flessibilità, sia rispetto ai luoghi sia rispetto ai tempi. In altre parole il lavoro può essere espletato in tanti ambienti diversi e con orari differenti da quelli d’ufficio». Ma questo «non ha molto a che vedere con l’esperienza che abbiamo vissuto, e stiamo vivendo, durante il lockdown. Esperienza più prossima al telelavoro a cui però manca una gamba, quella a carico delle aziende. Penso per esempio gli strumenti tecnologici da fornire ai dipendenti. Ecco, potremmo definirla una forma massiccia di lavoro a distanza non pianificato. Prima del Covid solo poche aziende avevano forme di flessibilità ed erano molto limitate. Ci siamo ritrovati quindi nella condizione di affrontare questa emergenza senza un format. Se da un lato questo ha permesso di continuare a portare avanti le attività, dall’altro sono emerse anche molte criticità».

Lo smart working non ha molto a che vedere con l’esperienza che abbiamo vissuto in lockdown. Era ed è ancora oggi più che altro una forma di telelavoro.

Paola Profeta, professore associato di Scienza delle Finanze all’Università Bocconi

Problemi e criticità

In questi mesi la professoressa Profeta per conto della Bocconi ha condotto diversi studi sia per quello che riguarda lo smart working vero e proprio (pre pandemia), sia rispetto al telelavoro (pandemia): «Il nostro studio, di tipo sperimentale, ha seguito un gruppo di lavoratori per nove mesi confrontando le differenze fra chi praticava forme di flessibilità e chi invece non lo faceva. Prima della pandemia con lo smart working gli effetti positivi su produttività, benessere del lavoratore e bilanciamento dei tempi di vita sono stati evidenti. In epoca pandemica invece sono emersi importanti cali di produttività e di commitment. Risultati negativi per lo più dovuti all’improvvisazione e alla mancanza di protocolli, che al modello di telelavoro in senso stretto. Sono poi aumentate le differenze di genere, visto che le donne si sono trovate a dover gestire negli stessi spazi e nello stesso tempo, lavoro, figli e impegni domestici. Risultato? L’ over working, persone a cui non è rimasto più ossigeno da dedicare alla vita personale. Altro che smart working».

La contaminazione in casa non c’è

[legacy-picture caption=”Aldo Mazzocco, AD Generali e presidente CityLife” image=”c67e6531-d9d3-4721-8440-e6e85e67f184″ align=”left”]

Secondo Aldo Mazzocco, amministratore delegato e direttore generale di Generali Real Estate S.p.A. e presidente di Citylife S.p.A. «viviamo una accelerazione di trend che erano già in atto». «La prima volta in cui ho sentito parlare di smart working fu nella Silicon Valley nel 2005», spiega l’ingegnere, «era una cosa bella, una “liberazione” dalla scrivania grazie alla connessione continua e al cloud. L’evoluzione dell’ headquarter di Oracle è esemplificativa, perché si vede, nei vari building costruiti nel tempo, il cambiamento architettonico dovuto alla evoluzione delle modalità di lavoro. Si passa dall’ufficio di una volta con le foto di famiglia e delle vacanze sulla scrivania, agli open space con gli impiegati connessi fra loro dai laptop. Questo sì che è davvero lavoro smart perché è tutto basato sulla contaminazione. Non si sta più in ufficio ma in spazi comuni con la libertà di fare comunità. Questo genera un aumento incredibile della creatività e della diffusione delle conoscenze».

Quello che vedo e sento oggi non ha nulla di smart. Chiamiamolo lavoro da remoto, telelavoro o stare a casa. Che è la negazione della contaminazione alla base dello smart working.

Aldo Mazzocco, amministratore delegato e direttore generale di Generali Real Estate S.p.A. e presidente di Citylife S.p.A.

Il telelavoro è la negazione del lavoro flessibile

Quello che registra oggi Mazzocco «non ha nulla di smart. Chiamiamolo lavoro da remoto, telelavoro o stare a casa. Che è la negazione della contaminazione. Il lavoratore perde un terzo della sua capacità relazionali. E l’effetto è l’atomizzazione dei lavoratori che non hanno più forza o voglia di costruire e partecipare. Infine c’è l’essere umano: che fine fa una persona che non si fa più la barba o non si trucca più? Il non uscire di casa impatta certamente sui consumi ma principalmente sulla coscienza e cura di sé. Sparisce l’inaspettato, diventiamo cottimisti. Muoiono gli entusiasmi e le idee».

Il futuro

Lo smart working è dunque bocciato? Tutt’altro. «Prima della pandemia, quando lo smart working era reale e si limitava a un giorno a settimana, abbiamo registrato un impatto positivo sull’aumento della produttività e il rispetto delle scadenze ma anche della soddisfazione lavorativa, unitamente a un buon bilanciamento con la vita sociale-familiare, e con una conseguente riduzione dello stress», sottolinea Profeta. Che chiosa: «Per questo si potrebbe in futuro, con uno smart working non di emergenza, assistere a un cambio di paradigma che porterà al centro il risultato e l’obiettivo rispetto al tempo effettivamente trascorso sul luogo di lavoro. Dipenderà molto dal contesto e da quanto potrà essere misurabile il risultato in ciascun ambito professionale».

Per Mazzocco infine l’attenzione va rivolta anche al ri-design urbano: «È importante avere una città equilibrata nella gestione degli spazi e che sia vivibile, che tenga conto dei problemi di sicurezza e pulizia. È necessario creare il giusto mix tra lavoro in ufficio, in casa, ma anche nei vari spazi urbani. Mettere in sicurezza i quartieri, specialmente le periferie e ripensare le infrastrutture sarà uno dei temi portanti delle città del futuro. Solo così, con città davvero fruibili, potremo avere un vero smart working, flessibile e stimolante».

Di |2024-07-15T10:06:11+01:00Novembre 23rd, 2020|Human Capital, MF, Smart Working|0 Commenti