Smart working e welfare aziendale: qualcosa si muove (anche tra le piccole e medie imprese)
Imprenditori illuminati, li chiamano. Come Nicola Lamberti, ceo di 7Pixel, una realtà della provincia di Pavia, che opera online nell’ambito della comparazione dei prezzi. O come Roberto Brazzale, titolare dell’omonima impresa lattiero casearia che opera fra Zanè, in provincia di Vicenza e la Repubblica Ceca. Due aziende che hanno deciso, indipendentemente da una normativa che non le obbligherebbe a farlo, di offrire un sostegno economico e iniziative di conciliazione tra vita e lavoro alle neo-mamme e ai neo-papà che lavorano nella loro azienda. In particolare, ha fatto molto scalpore l’iniziativa di Roberto Brazzale che ha deciso di elargire, dallo scorso marzo, un ricco baby bonus per ogni nuovi nato agli oltre 550 dipendenti, bonus pari a un'intera mensilità media.
Illuminati, perché ce ne sono pochi come loro, purtroppo. Stando ai dati del secondo rapporto Welfare Index Pmi, promosso da Generali con la partecipazione di Confindustria, Confagricoltura, Confartigianato e Confprofessioni, presentato lo scorso aprile, emerge, ad esempio, che solo il 6,7% delle piccole e medie imprese italiane offre un servizio di assistenza per i lavoratori e le loro famiglie. Una percentuale analoga a quella delle pmi che hanno adottato al loro interno politiche di smart working per i loro dipendenti.
«Desideriamo non soltanto aiutare lo sforzo economico dei neogenitori, ma soprattutto far sentire che l'azienda è felice quando riescono a realizzare i loro progetti di vita. Che devono sempre restare in primo piano», spiega Roberto Brazzale, presentando il suo progetto, cui si aggiungono peraltro tre anni di congedo parentale, con il diritto a conservare il posto di lavoro e un’indennità, eventualmente prolungabile in caso di nascita di altri figli. «Vogliamo lasciare il mondo migliore di come l’abbiamo trovato», gli fa eco Lamberti. Entrambi consapevoli di quanto la disponibilità dell’impresa nel lasciare che ogni suo addetto possa organizzare il proprio tempo come crede, costituisca uno stimolo fondamentale per lavorare meglio.
Nel 2017, il numero di smart worker è aumentato del 14% rispetto allo scorso anno. Pochi – tra il 7 e l’8% degli occupati del nostro Paese -, ma in crescita del 60% rispetto al 2013.
È una ricerca dal titolo Flexible Work: Friend or Foe? realizzata su un campione di 8mila individui – datori e lavoratori -provenienti da dieci Paesi e commissionata da Vodafone – non a caso, l’azienda che in Italia ha coinvolto il maggior numero di dipendenti nelle sue politiche smart, secondo i dati dell’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano – a dimostrarlo. L’83% delle persone coinvolte a vario titolo in progetti di smart working parla infatti di un aumento della produttività, il 61% della crescita dei profitti, il 58% di un migliore impatto sulla reputazione aziendale.
Più friend e meno foe, quindi. Ma in Italia siamo ancora indietro, soprattutto tra le piccole imprese. Stando alla ricerca Vodafone, il 40% dei lavoratori italiani coinvolti nel sondaggio non ha ancora adottato politiche di lavoro flessibile, mentre solo il 31% le ha sperimentate almeno una volta. Il nostro Paese scivola così al penultimo posto tra tutti i Paesi coinvolti nella ricerca, seguita solo da Hong Kong.
Parzialmente diversi sono i risultati dell’Osservatorio Smart Working della School of Management del Politecnico di Milano, secondo il quale, nel 2017, il numero di smart worker è aumentato del 14% rispetto allo scorso anno. Pochi – tra il 7 e l’8% degli occupati del nostro Paese -, ma in crescita del 60% rispetto al 2013. Per quanto riguarda le Pmi invece, solo il 7% delle realtà ha avviato progetti ben strutturati, laddove il 22% sta lavorando su percorsi che si trovano ancora a uno stato sperimentale: «Il sostegno alla maternità e alle nuove nascite deve arrivare da uno sforzo corale, nel quale le aziende devono fare la loro parte», afferma ancora Brazzale. Ecco: forse in Italia ci sono ancora troppi tenori, ma manca un coro come si deve.