L’Italia vista da un videogame
«Il videogioco va pensato come un oggetto di complessità straordinaria e i tempi per comprenderne il valore culturale sono maturi». Ne è convinto Riccardo Fassone, ricercatore dell'Università di Torino che da anni si occupa di game studies, una disciplina relativamente nuova che fonde sapere umanistico e cultura digitale. Fondatore della rivista di settore Game, Fassone ha da poco curato, con Marco Benoît Carbone, un volume importante: Il videogioco in Italia. Storie, rappresentazioni, contesti (Mimesis, Milano 2021)
Perchè è stato così difficile riconoscere a questo medium una sua specificità?
Il videogioco ha scontato un pregiudizio molto forte, tipico dei nuovi media rispetto al loro valore culturale. Nel caso del videogioco ha pesato anche il discorso sugli effetti. Per anni, il fatto che un certo tipo di stimolazione potesse avere effetti immediati e misurabili sull’aggressività ha alimentato grande diffidenza nei confronti del videogioco. Oggi, però, superati certi ostacoli è più facile comprendere come negli ultimi trent’anni, il videogioco sia stato uno degli elementi costitutivi della cultura dei nuovi media in Occidente: ha dato luogo a immaginari, comunità, credenze condivise, ha stimolato pratiche e innovazioni.
Negli ultimi trent’anni il videogioco è stato uno degli elementi costitutivi della cultura dei nuovi media
Veniamo al contesto italiano…
L’Italia ha la fama di essere un Paese prevalentemente di consumo. Un Paese dove si producono pochi videogiochi, ma si fa poca produzione e poco sviluppo.
È un'immagine che corrisponde al vero?
Parzialmente, perché comunque va storicizzata.
Il trend di consumo è stato addirittura amplificato in quest'anno di pandemia: nel 2020, il mercato italiano ha registrato infatti una performance da record, generando un giro d'affari di 2 miliardi e 179 milioni di euro. Il mercato dei videogames, nel nostro Paese, è in crescita del +21,9% rispetto al 2019…
Questi sono i dati, ma se torniamo alla relativa divaricazione fra produzione e consumo e alla sua storia, bisogna ricordare che sul finire degli anni Ottanta l’Italia ha avuto una fioritura di produzioni e case di produzione che avevano notevoli capacità economiche e realizzative. Poi è accaduto qualcosa. Qualcosa che è conseguenza anche di situazioni culturali complessive: contrariamente a quanto accadeva in Francia, infatti, il videogioco non era considerato meritevole di tutela e sostegno e, quindi, veniva relegato in una sorta di "cultura di serie B". Oggi la situazione è un po' mutata. Il videogioco è uscito dalla nicchia, ma è anche finito il tempo delle grandi produzioni. La specificità italiana, se così la vogliamo chiamare, è che si producono videogiochi in aziende medio-piccole, piccole o individuali. Aziende che hanno una sostenibilità ibrida: fanno sia videogiochi per il pubblico, ma sviluppano anche servizi Business to Business.
Che tipo di servizi B2B?
Queste aziende creano giochi per il training o per il team building. Lavorano infine con altre aziende attraverso lo strumento ludico e si sostengono economicamente con questo sistema integrato. È vero, comunque, che sul lato della produzione l’Italia sconta una certa arretratezza in termini di tessuto industriale e di sostenibilità economica, più che in termini produttivi veri e propri.
Secondo l'ultimo rapporto di settore (IIDEA) nel 2020 è cresciuto il coinvolgimento dei giocatori (che rappresentano il 38% della popolazione italiana compresa tra i 6 e i 64 anni) nei confronti dei videogiochi. Nell'ultimo anno, anche a causa del lockdown, gli italiani hanno dedicato in media 8 ore a settimana a giocare su tutti i device. Con la pandemia è emerso però un aspetto di forte socializzazione legata all’uso dei videogiochi…
Il fatto che i videogiochi siano uno strumento di socializzazione è evidente dai tempi delle sale gioco. Il “videogiocare” ha avuto una parentesi relativamente breve in cui è stato un gioco in solitudine: è la fase del gioco per PC o per Console. Negli anni Settanta e Ottanta, “videogiocare” significava frequentare reti sociali molto forti. Poi, questa cosa si è tradotta nel gioco online e, oggi, si è trasformata in una nuova forma di socializzazione. Nel gioco online i giocatori si uniscono per affinità e interessi, ma ci sono comunità di gioco che prendono direzioni comuni che vanno ben oltre il gioco: credenze, idee, opinioni, passioni. Questa cosa, per chi gioca, è sempre stata chiara: accedere a un mondo virtuale non significa semplicemente misurare le proprie performance con altri, ma interagire, socializzare, comunicare e scambiare. Questo fatto, ora, anche a causa della pandemia, è diventato più evidente anche ai non giocatori.
Non giocatori che, durante il lockdown, hanno cominciato a sperimentare ambienti ludici…
Animal Crossing è un caso esemplare in tal senso. È un gioco a bassa intensità dal punto di vista competitivo, molto poco sollecitante, anche esteticamente, ma adatto alla socializzazione. Ovviamente esistono comunità in cui gli aspetti competitivi sono molto forti, ma ciò non toglie che anche in queste comunità la socializzazione sia presente, magari fuori dal gioco (nei forum, ad esempio).
Il videogioco ha un ciclo di vita molto lungo. Questo prevede che molte figure professionali siano impegnate su quel gioco per molto tempo anche dopo la sua uscita sul mercato
C'è qualche prodotto di gioco che ha mostrato qualità di resilienza e, al tempo stesso, di innovazione che portino un'impronta tipicamente italiana?
In Italia segnalo in particolare un gioco elaborato da un duo di sviluppatori milanesi, We Are Müesli. Hanno realizzato un gioco, Venti mesi, che percorre i venti mesi che intercorrono tra l'8 settembre e la fine della Seconda Guerra mondiale. Questo gruppo lavora molto, sia in digitale che in analogico, su fatti storici molto sottili. La loro è un'esperienza forse un po' fuori dalla grande game industry, perché lavorano come artigiani e come visual artist, ma credo che proprio in questo modo di lavorare nel game design ci sia una specificità italiana.
Questo richiede una competenza su più fronti, oltre che settoriale, anche umanistica…
L'interconnessione di saperi e la multidisciplinarietà sono sicuramente tratti caratteristici dell'industria del videogame. Un'industria dove si lavora prevalentemente in team. Il game designer è colui che ha l'idea, chi fa il codice si occupa degli aspetti prettamente informatici. Poi c'è un comparto visivo-estetico (concept artist, modellatori, disegnatori che spesso lavorano su più media, dal cinema alla pubblicità) a cui si uniscono storytellers e, in certe esperienze, anche ricercatori storici e umanisti.
Poi c' è tutto l'aspetto della comunicazione e del rapporto con le comunità di giocatori…
Comunicazioni e relazioni affidate spesso a community manager che lavorano come anello di congiunzione tra la produzione e la fruizione. Alcune delle aziende più grandi hanno, per i giochi storici, ricercatori professionisti nei loro staff. Il videogioco ha un ciclo di vita molto lungo. Questo prevede che molte figure professionali siano impegnate su quel gioco per molto tempo anche dopo la sua uscita sul mercato.
Spesso, quando osserviamo il videogioco, ci limitiamo agli aspetti creativi e di design…
Ma c'è un secondo aspetto, legato alla "manutenzione", all'aggiornamento, alla relazione con i gamers che è altrettanto importante. Anche in questo secondo aspetto emerge la specificità italiana, che sta creando comunità sempre più consapevoli e forti in un contesto-Paese dove la literacy complessiva sul gioco non è tra le più alte.