Workers buyout, quando il lavoro nasce da un fallimento
Hanno superato quota 100 in dieci anni – dal 2008, anno di inizio della crisi economica – le aziende italiane fallite e rigenerate dai dipendenti con la trasformazione in cooperative: stiamo parlando del fenomeno dei Wbo, Workers buyout. Che oggi coinvolge 8mila lavoratori (15mila con l’indotto) e muove un fatturato superiore a 200 milioni di euro. Da nord a sud: la distribuzione dei Wbo racconta di una prevalenza al Nord, con il 43% delle esperienze in atto, seguita dal centro con il 30% e sud e isole al 27%. “Più di otto su dieci riescono a ritornare sul mercato e consolidarsi, in molti casi tornando ad assumere persone”, sottolinea Camillo De Berardinis, vicepresidente e amministratore delegato di Cfi (Cooperazione finanza impresa), società cooperativa a partecipazione pubblica nata nel 1986 per gestire il fondo rotativo destinato dalla legge Marcora (49/1985) alla salvaguardia dell’occupazione attraverso i Workers buyout. Del centinaio di esperienze – che salgono a 220 se si parte dal momento successivo alla legge – più della metà riguarda aziende del comparto industriale, in minor parte aziende del settore dei servizi e delle costruzioni.
[legacy-picture caption=”” image=”a3dd1f35-bf99-4c11-9a9b-6e28a15233b0″ align=””]Più di otto su dieci riescono a ritornare sul mercato e consolidarsi, in molti casi tornando ad assumere persone.
Ma come nasce un Wbo? “Il caso classico è quello di un’azienda in procedura fallimentare dove i lavoratori, messi a dura prova tra cassa integrazione e mobilità, diventano protagonisti, unendosi in cooperativa e mettendo nel nuovo progetto le proprie speranze e i propri risparmi”, spiega Aldo Soldi, direttore generale di Coopfond, il fondo di Legacoop dedicato ai workers buyout. “La nuova coop, con un proprio presidente e consiglio di amministrazione, segue la procedura di fallimento cercando di recuperare capannoni, attrezzature e macchinari al momento dell’asta, anche dialogando con la precedente proprietà dove possibile”. Coopfond, assieme a Fondo Sviluppo di Confcooperative e General Fond di Agci (Associazione generale cooperative italiane) sono i tre fondi mutualistici delle centrali cooperative. Con Cfi, che è partecipata dal ministero dell’Economia e promossa dalla stessa Legacoop con Confcoop e Agci, finanziano e seguono passo dopo passo le realtà di Wbo, spesso entrando anche nel capitale sociale della neonata cooperativa e rimanendoci anche quando auspicabilmente verranno generati dividendi, così da avere ancora più risorse a disposizione per futuri Wbo. Il concetto è lo stesso del Fondo di rotazione della citata Legge Marcora, che oggi ha raggiunto 96 milioni di euro, e un tesoretto aggiuntivo di 20 milioni di euro introdotto con un decreto ministeriale del 2014. Tutti gli strumenti a disposizione permettono un’elasticità di erogazione indispensabile alla nascita e crescita dei Wbo.
I lavoratori, messi a dura prova tra cassa integrazione e mobilità, diventano protagonisti, unendosi in cooperativa.
“Ciascun Worker buyout ha la sua specificità anche se tutti hanno un unico filo conduttore, la capacità del territorio e delle persone di riorganizzarsi. Di trasformare un default aziendale in una storia di successo imprenditoriale. Di trasformarsi da operaio in imprenditore di se stesso. Tutto questo è possibile grazie alla formula cooperativa che esalta la capacità di organizzazione delle persone”, ragiona Maurizio Gardini, presidente di Confcooperative e portavoce dell'Alleanza delle cooperative italiane. “Le motivazioni e la coesione della base sociale, che spesso rinuncia anche a parte della retribuzione e alimenta il capitale sociale della nuova coop con la propria mobilità, sono il fulcro di un Wbo destinato ad avere successo”, aggiunge De Berardinis di Cfi. Tutto questo, certo, a fianco di “un piano industriale centrato, dove noi stessi che supportiamo l’operazione dobbiamo valutarne l’efficacia e, se necessario, fare capire come correggere il tiro prima che sia troppo tardi”. Il rapporto tra società investitrici e Wbo è intenso nella prima fase, quella dell’istruttoria fallimentare e della riconversione, per poi diventare meno frequente ma sempre attivo. Anche perché, quando le cose si mettono bene, la nuova cooperativa può beneficiare anche di fondi per lo sviluppo imprenditoriale, una volta che i conti tornano a posto. Break even (punto di pareggio di bilancio) che per i Wbo avviene spesso entro il secondo anno di attività, come nei tre casi che andiamo a raccontare.
[legacy-picture caption=”” image=”824ee15d-e88e-4dd7-9969-7021e81eb81f” align=””]Qualche esempio? Uno a nord, l’altro più al centro Italia, il terzo a sud: ecco tre esperienze modello di Workers buyout, che si chiamano Pirinoli, SolesTech e WBOItalcables.
La cartiera Pirinoli, che ha sede a Roccavione, piccolo centro in provincia di Cuneo a 20 chilometri dal confine francese, è quasi considerata un’istituzione in zona. Nata addirittura nel 1872 e tra i primi produttori in Europa di patinati multistrato, quelli per esempio che poi diventano gli astucci con cui sono confezionati panettoni, riso o gelati, nel 2012 si è fermata di colpo. Ben 155 dipendenti senza lavoro. “Non per mancanza di committenti, ma di liquidità”, racconta Silvano Carletti, all’epoca direttore di stabilimento e oggi presidente e amministratore delegato della cooperativa Wbo che ha mantenuto ovviamente il marchio Pirinoli e ridandogli linfa vitale: “di fatto è tornata sul mercato in un paio di anni dal fallimento e oggi genera ottimi utili, “750mila euro nel 2017 e sicuramente di più nel 2018, a fronte di un 2016 chiuso a più 120mila euro e un 2015, primo anno dopo la riconversione, in cui eravamo in negativo di 250mila euro”. Ma soprattutto, ha permesso ultimamente di tornare ad assumere persone: delle 70 presenti all’avvio della cooperativa – gli altri avevano trovato altri lavori oppure non se l’erano sentita di diventare soci della nuova scommessa – oggi la Pirinoli ha 84 dipendenti (72 uomini e 12 donne) e con una quarantina di persone di indotto raggiunge quindi almeno 120 famiglie. “Non c’è stato nessuno stravolgimento a livello di organizzazione, a parte ovviamente il passaggio in società cooperativa che ha fatto maturare in ogni socio lavoratore una maggiore attenzione e un senso di attaccamento al proprio lavoro diverso da prima, con più responsabilità ma anche più voglia di essere protagonisti”, ribadisce Carletti, 51 anni. Oggi la coop lavora “al 40-45% con clienti esteri, soprattutto da Europa, Turchia ed Egitto” e ha riconvertito il processo lavorativo di due linee di prodotto su un’unica produzione, abbattendo i costi. “Cfi ci ha seguito da vicino fin da subito, e devo dire che abbiamo trovato un forte appoggio anche dagli istituti bancari a cui ci siamo rivolti, dalla Regione Piemonte e dal sindaco di Roccavione, che è stato fondamentale nel garantire la nostra affidabilità”.
[legacy-picture caption=”” image=”8b4314a4-6806-43e7-87a6-bfc78a6967eb” align=””]Dal cuneese a Forli, dove oggi è attiva un’altra interessante esperienza di Wbo, quella della cooperativa SolesTech, nata negli anni ’70 come Società per azioni nel settore del sollevamento di edifici e manufatti, con occhio particolare a sistemi brevettati per gli adeguamenti sismici. “Il lavoro è andato bene anche nei primi anni dopo la crisi, anche dopo essere stati rilevati da un gruppo veneto con altre aziende del settore. Ma nel 2013, a causa di commesse non andate in porto, la società rischiava il fallimento e così i lavoratori hanno preso la decisione: “la rileviamo noi”. Nel maggio 2015, al termine di un iter complesso in cui si è costituita la cooperativa e ha recuperato all’asta i propri macchinari e brevetti, si è ripartiti. “E’ stato un a sorta di miracolo, in pochi mesi siamo ripartiti”, spiega Luigi Patanè, prima manager aziendale oggi presidente della coop SolesTech, che ha 22 dipendenti più una decina di lavoratori dell’indotto e matura fatturati invidiabili: “siamo passati dai 200mila euro del 2015 ai 2,2 milioni dell’anno successivo, fino ai 5,3 milioni del 2017 con una previsione per il 2018 di 8,3 milioni di euro”, indica il 55enne Patanè. “Abbiamo recuperato quasi tutti i clienti e aggiunti dei nuovi. La cosa che mi sorprende è che quando diciamo loro che siamo rinati in forma cooperativa ci vedono con un occhio migliore, per loro siamo più autentici e diamo maggiori garanzie. È un riconoscimento trasversale che ci stimola a crescere”. Il primo contatto di Patanè con i fondi mutualistici che hanno permesso la nascita del Wbo è stato con Confcooperative, “che in breve tempo ci ha sostenuto e rilanciato, facendoci capire che per ripartire non bastava la buona volontà ma serviva anche fare gruppo dal punto di vista dello spirito imprenditoriale”. Oggi tra i vari cantieri aperti quelli legati all’antisismica sono la punta di diamante, “in particolare nella zona di Macerata e nel Lazio”.
[legacy-picture caption=”” image=”7d1ff98f-94f3-43e9-94d3-90c26d2023a9″ align=””]Il viaggio nel variegato mondo del Wbo ha come ultima tappa Caivano, alle porte di Napoli. Qui la WBOItalcables (che mettendo la sigla del Workers buyout anche nel nome sancisce ancor più la forte identità cooperativistica), sorta negli anni ’70 nell’alveo della Redaelli Tecna nella lavorazione dell’acciaio in particolare per cavi e fili per cemento armato precompresso, ha vissuto tra fine 2012 e inizio 2013 momenti drammatici. “Eravamo 77 lavoratori che a inizio gennaio 2013 sono rimasti fermi perché non è arrivata la materia prima da lavorare. Ci siamo trovati spiazzati e senza soluzioni esterne ovvero senza compratori. Ma poi ci siamo detti: ‘è mai possibile che debba finire così?”, racconta Paolo Piraccini, che era vicedirettore dello stabilimento prima del fallimento e che oggi è presidente della nuova cooperativa. “Abbiamo preso contatti con Legacoop e grazie anche all’appoggio di un dottore commercialista ma soprattutto di Coopfond, Cfi e Banca Etica – a cui si è aggiunto in seguito Banco di Napoli – siamo riusciti nell’impresa di ripartire”. Grazie ai fondi della legge Marcora i 51 lavoratori rimasti per fondare la cooperativa hanno investito la propria mobilità per la riconversione. “Per molti, che erano passati anche dalla cassa integrazione, è stata una scommessa totale, perché investivano ogni risparmio”, continua Piraccini, 49 anni. “Ma avevamo al nostro fianco chi credeva in noi, e quindi siamo andati avanti e ha funzionato: nel 2015 abbiamo stipulato un contratto di affitto per macchinari e stabilimento e, se tutto va bene, entro il 2018 ritorneremo proprietari diretti”. Dopo il primo anno di bilancio negativo di 260mila euro, nel 2017 il saldo è stato positivo per 290mila euro, con un fatturato di 18,5 milioni di euro, “e il 2018 promette ancora meglio”. WBOItalcables oggi ha clienti al 65% in Italia, ha un cda di sette persone e un sistema decisionale “in cui ogni scelta è condivisa tra tutti i soci. Non è sempre facile ma è un modello vincente, che stimola a rimboccarsi le maniche ogni giorno”. Da pochi mesi, la coop ha avuto anche il suo primo pensionato.