Lavoro e social media? Il 44% dei recruiter scarta profili a causa della Digital Reputation
Nell’era dell’overflow informativo, dei black mirror come estensioni identitarie e dei dati personali come nuovo petrolio, per citare l’ormai noto adagio dell’imprenditore e scrittore angloamericano Andrew Keen, era inevitabile che anche il mercato del lavoro dovesse fare i conti con la realtà dell’always on e dei social network. Una rivoluzione in continuo divenire che chiama in causa nuove competenze e abilità, ma anche l’urgenza di una maggiore consapevolezza dei limiti e delle opportunità che la Rete offre non solo a chi cerca lavoro, ma anche a chi lo offre.
L’indagine Work Trends Study 2019, realizzata da Adecco in collaborazione con l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e presentata nel corso di Wired Trends 2020, offre un’affascinante istantanea del cambiamento in atto, rivelando come il web e i social abbiano un peso crescente nella ricerca tanto di un lavoro quanto di un candidato e come tutto questo sia legato indissolubilmente alla costruzione di un’efficace e coerente reputazione online.
La ricerca, alla sua quinta edizione, è stata condotta intervistando 1.466 candidati e 259 recruiter in tutta Italia con una distribuzione piuttosto omogenea sia per età sia per sesso (42,6% dai 18 ai 35 anni, 37,5% dai 36 ai 50 anni e 19,9% dai 51 ai 65 anni; 51,1% donne e 48,9% uomini) e si snoda attraverso tre macroaree: Social Recruiting, Personal branding, peso e ruolo dei candidati passivi.
Social Recruiting
Il tempo che passiamo connessi è in costante aumento, inevitabile quindi che anche il lavoro, o un nuovo lavoro, lo si trovi online. I candidati, infatti, spendono in media online il 72% del loro tempo per trovare lavoro. Così i recruiter, che ne impiegano il 45,1% per cercare potenziali candidati, percentuale destinata a salire fino al 55,7% entro un anno. Un dato questo che se ne trascina dietro un altro: la percezione che proprio la ricerca online richieda meno investimenti economici (70,2%), meno tempo (58,1%), ma più investimenti in competenze tecniche (48,6%) rispetto alla ricerca tradizionale offline.
I candidati, infatti, spendono in media online il 72% del loro tempo per trovare lavoro. Così i recruiter, che ne impiegano il 45,1% per cercare potenziali candidati
Online, i candidati utilizzano più i siti web (85%) che i social (33%) e, tuttavia, la percezione di una loro reale efficacia resta negativa. Sembra un paradosso, ma non lo è, se consideriamo che solo il 45% di chi ha navigato tra siti di aziende ha poi ricevuto un’offerta di lavoro tramite mail, mentre per chi ha utilizzato le piattaforme social la percentuale scende addirittura al 12%. Inoltre, i candidati che hanno ottenuto il lavoro sono un esiguo 3,2%, percentuale in calo rispetto a quattro anni fa. Al contrario, altri canali, come il vecchio e intramontabile passaparola (ad oggi lo strumento di marketing più potente!) si è dimostrato valido per il 57% degli intervistati.
In questo scenario il digitale è, dunque, più una vetrina dove candidati e recruiter possono mostrarsi, un luogo nel quale costruire la propria reputazione e promuovere se stessi. Gli avamposti della nostra personalità sono proprio lì, in un post su Facebook o in un selfie su Instagram, solo che spesso non lo sappiamo.
Quali social
Tra le piattaforme più utilizzate per cercare un impiego, LinkedIn resta la favorita, lo sceglie il 58% dei candidati. Crescono anche Facebook (dal 27% al 32% in quattro anni) e Instagram (10%), superando Twitter, social che da molti anni ormai sembra arrancare dietro ai continui mutamenti della concorrenza.
Se guardiamo, invece, al settore delle Risorse Umane, nonostante LinkedIn e Facebook rimangano tra i social più utilizzati, la loro percentuale rispetto al 2015 subisce un calo significativo, passando dall’88% al 74% per il canale professionale e dal 28% al 14% per il social di Menlo Park. Entra però nella cassetta degli attrezzi del recruiter 3.0 Instagram, il re del visual marketing.
E se per i candidati i social sono solo un ulteriore mezzo per cercare annunci (lo fa il 61% degli intervistati), rispondere a candidature (52,3%) o per cercare le pagine dei potenziali datori di lavoro (50,1%), per i recruiter diventano una sorta di cartina al tornasole capace di svelare la vera personalità di chi cerca un impiego e misurarne così l’affidabilità e quindi la reputazione.
Personal Branding
La foto di schiena al mare, il post del lunedì mattina su Facebook, i commenti astiosi ad un articolo su Twitter, raccontano chi siamo e come pensiamo, svelando ad un pubblico indefinito, nella qualità e nel numero, la nostra identità.
Ma sono in pochi a fermarsi a considerare quanto possa essere rilevante la web reputation. Il 55% dei candidati ritiene, in realtà, che l’immagine che emerge dai social non sia rappresentativa della propria personalità. Eppure, c’è un 72% di selezionatori per cui i profili personali sono un vero e proprio specchio capace di riflettere una realtà più complessa e, se vogliamo, anche più veritiera, rispetto a un cv statico e cucito su misura. Tanto che il 44% dei recruiter ammette di aver scartato un candidato, nonostante un curriculum ritenuto valido, dopo aver visualizzato i suoi profili social. Foto sconvenienti e tratti della personalità non conformi alla posizione richiesta, sono le principali cause di esclusione di una candidatura.
Il 44% dei recruiter ammette di aver scartato un candidato dopo aver visualizzato i suoi profili social. Foto sconvenienti e tratti della personalità non conformi alla posizione richiesta, sono le principali cause di esclusione di una candidatura.
Per questa ragione, ogni candidato deve attuare una vera e propria strategia di marketing personale nel lungo periodo: deve iniziare a pensarsi come un marchio da pubblicizzare all’interno di un mercato altamente complesso e competitivo. Fare personal branding significa raccontare una storia, unica e personale, mostrare la parte migliore di sé, avendo cura nel tempo di quella preziosa narrazione, non solo quando si è in cerca di un impiego, ma anche quando un lavoro lo si ha già, come per i candidati passivi.
Il fascino dei candidati passivi
I candidati passivi sono quei candidati che non si propongono in modo spontaneo, ma che vengono ricercati dagli Head Hunter. Sono un vero e proprio tesoro per le aziende, disposte ad investire più tempo nella ricerca e ad offrire un compenso maggiore al candidato nel momento della proposta di assunzione. Questo perché, rispetto ai candidati attivi, hanno maggiori competenze tecniche (30,9%) e una maggiore esperienza professionale (36,1%), seppure difettino in motivazione (7,2%) e competenze relazionali (13,4%).
I loro profili social sono veri distaccamenti strategici per i recruiter, i quali li sfruttano con successo per contattare (76,3%), individuare (69%) e reclutare i candidati (67%).