Baby influencer, quel confine sottile con il lavoro minorile
Sono i baby influencer: quei bambini e adolescenti che al di sotto dei tredici anni, per legge, non potrebbero neppure avere un profilo social e che invece postano foto personali sui social alla ricerca di like e follower. Non è solo il desiderio di popolarità e la ricerca continua di pubblico a spingerli su TikTok, YouTube, o Instagram. Vi sono pure consistenti interessi economici.
Quali sono i rischi?
«Essendo quello dell’influencer un lavoro a tutti gli effetti, sia in termini di tempo impiegato per la produzione e la pubblicazione dei contenuti, sia in termini meramente economici (tra aziende e influencer si instaura una vera e propria relazione professionale, regolata da accordi scritti, inclusi diritti e doveri di entrambe le parti), il rischio oggettivo è che i baby influencer siano a tutti gli effetti dei “baby lavoratori”», commenta Raffaella Amoroso, autrice, insieme ad Arianna Chieli, del podcast “Influencer squad. Come l’influencer marketing ha cambiato le nostre vite” (in esclusiva su Storytel). In Italia, chiarisce l’autrice, «il lavoro minorile è definito come un’“attività lavorativa che priva i bambini e le bambine della loro infanzia, della loro dignità e influisce negativamente sul loro sviluppo psico-fisico” e, proprio ricollegandosi a questa definizione, un altro potenziale rischio è che la prolungata esposizione ad ambienti digitali o comunque a ecosistemi in cui vigono regole di comportamento e di relazione oggettivamente lontane dalle modalità di interazione dei più piccoli, possa portare a una situazione di confusione legata ai ruoli, alla comunicazione e soprattutto a una media education viziata dalla necessità di “performare”.
Carla Garlatti, Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza, è molto preoccupata: «l’attività dei bambini influencer è un fenomeno che può compromettere seriamente lo sviluppo sano ed equilibrato al quale ciascun minorenne ha diritto. La sovraesposizione può infatti impedire di vivere l’infanzia o l’adolescenza in maniera adeguata, sotto la pressione della ricerca del guadagno – da parte del minore o dei genitori – attraverso lo sfruttamento della propria personalità online».
Qual è la situazione in Italia?
«In Italia – specifica Garlatti- un minorenne non può lavorare fino al compimento dei 16 anni. Le uniche eccezioni sono previste dalla legge per lavorare nello spettacolo. In tali casi è comunque necessaria la preventiva autorizzazione dell’Ispettorato nazionale del lavoro che richiede, oltre al consenso dei genitori, anche la garanzia che si tratti di attività che non pregiudichino la sicurezza, l’integrità psico-fisica e lo sviluppo, la frequenza scolastica o la partecipazione a programmi di orientamento o di formazione professionale. Allo stesso tempo anche l’uso dell’immagine o delle voci dei minori, nell’ambito o al di fuori di un rapporto di lavoro, deve avvenire con il massimo rispetto della dignità personale, dell’immagine, dell’integrità psicofisica e della privacy».
In tale ambito, la giurisprudenza ha sottolineato che occorre valutare se il contratto che prevede l’uso dell’immagine del minore è realmente rispondente al suo interesse, applicando principi e i limiti stabiliti dalla Carta di Treviso. In ogni caso si applicano le norme sulla responsabilità genitoriale, che impongono al genitore un dovere di cura e di educazione nei confronti dei figli minorenni, inclusa anche la corretta gestione dell’immagine pubblica. In caso di violazione, l’autorità giudiziaria potrà intervenire emettendo provvedimenti inibitori, compresa la rimozione di contenuti.
«A tutela dei diritti del minorenne – aggiunge ancora la garante Garlatti – possono essere richiamati gli istituti previsti dal nostro codice civile, in particolare l’impossibilità che gli atti di straordinaria amministrazione, come la riscossione di somme a qualsiasi titolo, siano compiuti dai genitori senza la preventiva autorizzazione del giudice. Su questi beni, comunque, i genitori hanno l’usufrutto legale e i frutti percepiti devono essere destinati al mantenimento della famiglia e all’istruzione e all’educazione dei figli».
In Italia, inoltre, vige una legge, che si rifà a una direttiva europea, per cui è vietato l’uso di qualsiasi piattaforma social e in generale di qualsiasi app digitale a chi non abbia compiuto 14 anni. L’età si abbassa a 13 quando è prevista la supervisione del genitore e la sua mediazione digitale (ovvero la creazione di profili social collegati a quelli della persona maggiorenne, genitore o tutore che sia).
Non vietando, ma regolamentando
«Non è vietando ma regolamentando che si può contribuire alla costruzione di ambienti digitali utili e sicuri», osserva Ginevra Cerrina Feroni, vice Presidente Garante per la protezione dei dati personali. «Il Tavolo tecnico sulla tutela dei diritti dei minori nel contesto dei social network, dei servizi e dei prodotti digitali in rete (di cui fanno parte il Ministero della giustizia, l’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza, il Garante per la protezione dei dati personali e l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni) ha rivelato come negli ultimi cinque anni i minori autori di reati online sono aumentati del 250%, la pedofilia del 130% mentre si è abbassata l’età media del consumo di adescamento e consumo di porno online. In questi due anni di pandemia digitale – aggiunge ancora Feroni – sono aumentate le ore di connessione, si è abbassata l’età di accesso dei bambini alla rete e sono aumentati i reati online. L’allarme lanciato da più fronti, compresi i referenti delle principali piattaforme (Facebook e Instagram, Google per YouTube, e TikTok), è che le famiglie sono completamente assenti».
Perché i baby influencer hanno successo?
Mentre la normativa cerca di farsi sempre più stringente, il mercato dei baby influencer sta però conoscendo una fase di boom: i bambini non sono solamente esposti sui canali social dei genitori, ma sono i protagonisti di uno storytelling (che spesso ha fini commerciali) che si dipana proprio sui presidi social a loro intestati.
«Il baby influencer “medio” – spiega Raffaella Amoroso – funziona perché parla ai suoi coetanei, facenti parte della Generazione Alpha (nati tra il 2010 e il 2020), che fruiscono già di contenuti digitali e che sono quindi facilmente influenzabili da quel che i loro “pari digitali” propongono all’interno di video, post, Stories, TikTok e così via». Del resto, aggiunge ancora, i baby influencer hanno un doppio pubblico: da una parte i loro coetanei e, dall’altra, i genitori di questi ultimi. I baby influencer influenzano in prima battuta le scelte di bambini e pre-adolescenti (che a loro volta influenzano quelle dei loro genitori), ma tendono anche a “interagire” con le decisioni di acquisto dei genitori dei loro follower. Il potere d’acquisto “reale” è infatti in mano sempre (o almeno per il momento) agli adulti. Le aziende che sono quindi più interessate a collaborare con questi giovanissimi creator sono quelle che producono e commercializzano giocattoli (o comunque prodotti e accessori per l’infanzia/per la prima adolescenza) e quelle del settore “fashion”».
Lo storytelling che ormai viene scelto dalla maggior parte dei baby influencer è molto simile a quello degli influencer “adulti”: canali come Instagram e YouTube vengono usati per raccontare la loro quotidianità e, all’interno della narrazione, ogni volta che è possibile o che è richiesto vengono inserite collaborazioni strutturate con le aziende o comunque oggetti/prodotti che le aziende inviano loro in ottica di cambio-merce.
Come pensa di intervenire l’Italia?
«Si tratta di materia rimessa al legislatore», chiarisce Garlatti. «Come Autorità garante ho partecipato insieme a Agcom e Garante per la protezione dei dati personali al Tavolo tecnico sulla tutela dei diritti dei minori nel contesto dei social networks, dei servizi e dei prodotti digitali in rete presso il Ministero della giustizia. Nella relazione finale, consegnata alla ministra Marta Cartabia dal sottosegretario Anna Macina che lo ha presieduto, il Tavolo ha proposto tra le altre cose l’introduzione di una disciplina che preveda un’autorizzazione preliminare da parte del giudice, il quale dispone anche quale debba essere la destinazione del compenso, e il diritto all’oblio per i contenuti pubblicati da parte degli stessi ragazzi una volta compiuti 14 anni”.
L’esempio della Francia
«Chi ha già dato una risposta legislativa a tutela dei baby influencer – spiega Carla Garlatti – è stata la Francia con una legge del 2020 in materia di sfruttamento commerciale dell’immagine dei minorenni con meno di 16 anni nelle piattaforme online. Tra le misure previste: il contenimento dell’orario di lavoro anche in base all’età, la preventiva autorizzazione delle autorità locali alle aziende per qualsiasi assunzione o collaborazione con influencer minorenni. È previsto il versamento dei proventi presso la Cassa depositi e prestiti fino al raggiungimento della maggiore età del figlio, consentendo l’utilizzo di parte degli stessi in casi eccezionali e di emergenza. Una quota del reddito, determinata dall’autorità competente, può essere lasciata a disposizione dei legali rappresentanti del minore. Sono previste sanzioni per i genitori che trattengono denaro per loro profitto personale».
Il modello francese, inoltre, chiarisce Ginevra Cerrina Feroni «prevede che sia l’autorità giudiziaria a verificare i profitti realizzati dai minori con la loro attività di promozione on line. Così si cerca di dissuadere quei genitori che pensano di poter gestire liberamente il ricavato dell’attività in Rete dei propri figli. Ulteriore disincentivo per i genitori è l’esercizio del diritto all’oblio da parte di un minore già a partire dai 12 anni – cioè da quando in Italia viene riconosciuta al minore la capacità di discernimento –. Il minore potrà autonomamente chiedere che i contenuti che lo riguardano vengano rimossi dal web».
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