Dai big data all’ambiente: i mestieri per ripartire dopo il coronavirus
Ogni crisi, per quanto dura, nasconde possibilità per cambiare in meglio la società e quindi anche il mondo del lavoro. Dopo l’emergenza Covid ci saranno opportunità per alcuni settori che, seppur in difficoltà adesso, saranno il traino di una ripartenza. Capire quali sono questi ambiti ci indica quali saranno le competenze più richieste nei prossimi mesi e anni. Per saperne di più ci viene in aiuto il report Jobs of the Future Index appena pubblicato da Cognizant, che analizza i settori in crescita e ipotizza quali possano essere i nuovi mestieri del futuro.
Il primo settore, come ormai indicato da tutti gli esperti del mercato del lavoro, è il cosiddetto AAA (algoritmi, AI, automazione), che comprende quei mestieri legati allo studio dei Big Data e alla loro molteplici applicazioni, dall’industria 4.0 ai servizi per i cittadini (pubblica amministrazione digitale, home banking e così via).
Il rapporto lo dice chiaramente: se i dati sono il nuovo petrolio, gli “oleodotti” devono essere costruiti dagli “architetti e dagli sviluppatori della business intelligence”, ovvero da quell’insieme di processi aziendali finalizzati a raccogliere dati e analizzare informazioni strategiche. Questi sono i mestieri più in crescita (25% in un solo trimestre), ma nello stesso settore si distinguono anche i data scientist e gli ingegneri meccatronici (cioè la disciplina che si occupa di automatizzare i processi produttivi) e robotici.
Tra i mestieri del futuro anche il Cyber calamity forecaster, l’esperto di attacchi informatici
Secondo Cognizant, nei prossimi anni si svilupperà poi anche il Cyber calamity forecaster, traducibile come l’esperto di disastri informatici: mai come adesso siamo consapevoli della sensibilità dei nostri dati in rete, che però sono costantemente a rischio di infiltrazioni di hacker. Non è escluso allora che aziende e enti pubblici si affidino a questi esperti per prevedere e scongiurare possibili attacchi informatici.
Altro settore in netta crescita è quello della salute. A tal proposito, va specificato che la ricerca di Cognizant si basa sul mercato degli Stati Uniti e ogni sistema sanitario nazionale ha regole e funzionamenti propri difficilmente equiparabili, ma è indicativo comunque la crescita dell’interesse per la salute sia negli ospedali che nell’assistenza domestica. Non è difficile immaginare che l’emergenza Covid accentuerà questa tendenza già in atto, considerando che tra le professioni più richieste c’è quella dei caregiver, ovvero chi assiste malati, disabili o persone anziane nella quotidianità domestica.
Sempre legato alla salute, il rapporto segnala la potenziale crescita dei professionisti legati alla nutrizione e alla forma fisica, magari con la creazione di figure a metà tra il nutrizionalista e il personal trainer.
Il terzo settore evidenziato dal rapporto è quello dell’ambiente. L’ondata green dell’ultimo autunno, amplificata dalle manifestazioni in piazza, ha aumentato la sensibilità delle istituzioni e delle aziende nei confronti della conversione ecologica della produzione. In America, sottolinea i rapporto, le cose sono state complicate dall’animo non particolarmente green del presidente Donald Trump, ma a livello globale la tendenza è chiara. I mestieri collegati al settore sono parecchi: si va dalle specializzazioni operaie e di montaggio (produzione e installazione di pannelli solari, per esempio) alle declinazioni ambientali dell’ingegneria e della consulenza (progettare edifici più ecosostenibili, ridurre i consumi di una azienda e così via).
Lo Stato dovrà puntare sulla formazione dei disoccupati incentivando quella in azienda
Detto della direzione in cui tira il vento del mercato del lavoro post-Covid, ci sono poi alcune politiche che potrebbero avvantaggiare la ripresa dell'occupazione.
Di recente le ha spiegate su lavoce.info Francesco Filippucci, PhD alla Paris School of Economics e senior fellow del think tank Tortuga, che ha individuato tre possibili strumenti per investire in formazione. Innanzitutto, un’idea è il conto personale formazione: un credito annuale per ogni lavoratore da spendere in corsi riconosciuti dallo Stato o dalle associazioni sindacali o datoriali. In Francia esiste dal 2014 e garantisce 500 euro l’anno a ogni lavoratore, per un costo di circa 750 milioni di euro per lo Stato.
Altro nodo cruciale è la formazione dei disoccupati. In questo caso non si può prescindere, secondo Filippucci, dal rafforzamento della Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro, Anpal, attraverso la collaborazione con le Regioni. Qui l’investimento statale sarebbe presumibilmente più elevato, ma si potrebbe legare all’attività dei navigator attualmente in uso per il reddito di cittadinanza.
Controverso, ma senza dubbio interessante, è poi il terzo strumento individuato da Filippucci, ovvero imporre alle aziende un obbligo di spesa per la formazione. In Francia fino al 2014 vigeva l’obbligo di spesa del 2 per cento del monte salari per le imprese con più di 10 dipendenti. Come sottolinea l’esperto, una misura del genere potrebbe essere malvista dopo la crisi causata dal Covid, dunque una soluzione più ragionevole potrebbe essere quella di vincolare parte dei 400 miliardi di garanzia ai prestiti a obiettivi di formazione.