Trasformarsi in brand ambassador conviene (non solo all’azienda)
I dipendenti? Per parlare dell’azienda, dei suoi prodotti e dei suoi servizi, sono i soggetti più credibili, più affidabili e più “influenti”. Di certo più dei loro CEO. Il Trust Barometer di Edelman per il 2017 parla di una crescente «dispersione dell’autorità»: insieme alla credibilità di governi e dei media scende quella dei CEO e sale quella delle persone comuni, quelle che il Trust Barometer definisce “person like yourself”. Quando si tratta di raccogliere informazioni su una società, del CEO si fida solo il 37% del campione intervistato (il livello di credibilità più basso della storia), mentre il 60% ritiene le “person like yourself” altrettanto credibili di un tecnico (anch’egli al 60% di credibilità) o di un professore universitario (al 60%).
Di fatto oggi tutti i dipendenti e collaboratori sono – nel bene e nel male – ambassador del brand e dell’azienda in cui lavorano. La chiamano employee advocacy ed è un fenomeno amplificato esponenzialmente dalla rete: chiunque di noi conta centinaia di contatti sui social, a prescindere dal ruolo che riveste in azienda. Secondo la ricerca “Employees Rising: Seizing the Opportunity in Employee Activism” di Weber Shandwick siamo ancora reticenti a mischiare lavoro e vita privata sui nostri profili personali: solo il 21% dei lavoratori oggi è un “ProActivists”, anche se un altro 33% ha un alto potenziale di esserlo.
Le aziende si sono accorte del fatto che la digital trasformation non può essere ridotta a una mera questione tecnologica e già da qualche anno hanno messo in atto percorsi ad hoc: l'obiettivo non è tanto trasformare tutti i dipendenti in advocate del brand (tuttavia già il 24% delle compagnie incentiva il proprio staff a pubblicare e condividere sui social notizie inerenti il proprio posto di lavoro), quanto per scovare i leader che possano accompagnare l’azienda nel cambiamento interno ed esterno, cogliendo tutte le opportunità del digitale.
Mariano Corso è il responsabile scientifico dell’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano e ci spiega come in Rete il brand personale e il brand dell’azienda possono crescere insieme, facendo guadagnare tutti.
[legacy-picture caption=”” image=”87aaa87b-6986-4327-a885-d0769db1bf4f” align=”right”]Quali sono le nuove caratteristiche del rapporto fra l'azienda e i suoi dipendenti e collaboratori?
Stiamo assistendo a un’accelerazione notevole di un cambiamento in atto da tempo, con il superamento progressivo del rapporto di dipendenza. Questo ha conseguenze positive e negative dal punto di vista contrattuale e di normativa del lavoro, ma il dato di fatto è questo: all’individuo l’azienda non chiede più un “affitto” di ore di tempo, ma una contribuzione di risultati. L’individuo ha un rapporto più autonomo, responsabilizzante e dinamico con l’azienda ed è chiamato a dare un contributo allo sviluppo e al cambiamento dell’organizzazione stessa. Un elemento fra gli altri è che concretamente oggi quando un’impresa valuta i talenti ne valuta anche la potenziale influenza, valutando le skills e gli asset attuali in termini di network e di capacità di influenzare.
Significa che ciascuno di noi porta "in dote" il proprio brand all'azienda?
Nel momento in cui i millennial entrano in un’organizzazione hanno già un loro personal branding, di cui sono consapevoli e gelosi: sanno che questo è il loro asset più grande e la loro più grande forma di sicurezza per il futuro. Entrando in un’organizzazione mettono il loro brand a disposizione parziale dell’impresa, in cambio di opportunità e di un contributo per lo sviluppo del brand stesso. Non esiste più una completa identificazione con l’azienda, il patto è quello di un percorso comune, in cui entrambi i soggetti accrescono la propria reputation e la propria influenza.
Oggi chi entra in un’organizzazione mette il proprio brand a disposizione parziale dell’impresa.
Cosa fa, concretamente, il dipendente-ambassador?
Ovviamente non significa fare un post per dire “comprate questo prodotto”! Si tratta di diventare nodi focali di community allargate, intervenire in blog e forum di esperti, diventare esperti di riferimento, partecipare alle discussioni. Così da un lato intercettano i nuovi bisogni e dall’altro influenzano. Un tempo nessuno parlava dell’azienda se non gli esperti della comunicazione esterna, persino l’AD prima di parlare si coordinava con chi era deputato alla comunicazione esterna: ma questo metodo è lento, inefficiente, vecchio, perché mentre tu stai in silenzio la comunicazione comunque avviene, va avanti da sola e tu subisci gli effetti del deperimento della tua reputation. È successo qualche anno fa a Procter & Gamble per un nuovo tipo di pannolini, una mamma ha criticato sul suo blog i pannolini che avevano fatto arrossare la pelle del suo bambino e si è creato un mood. Oggi è necessario essere presenti nelle discussioni che avvengono in Rete, monitorarle, saper rispondere adeguatamente alle critiche. I clienti si informano online e ciascun lavoratore si deve sentire parte dell’azienda, condividere la missione di contribuire a portare un’immagine positiva dell’azienda, non in maniera mercenaria, ma intelligentemente capace di farne crescere la reputazione. Molte funzioni che erano “silos” oggi sono network diffusi di ingaggio, gli esperti sono solo i catalizzatori. È noto che nelle community la presenza diretta dei collaboratori è molto più efficace e ci sono settori in cui questo è consolidato, Microsoft ad esempio da anni premia i collaboratori che riescono ad essere presenti in modo efficace nei blog, riconoscendo loro il tempo che passano a lavorarci.
Non è una contraddizione palese col fatto che in molte aziende sia vietato l’accesso ai social network sul posto di lavoro?
La differenza la fa la capacità dell’azienda di ingaggiare le persone e questo accade se la persona viene motivata, riconoscendo che la presenza e la personalità individuale online è un valore: tu vali anche perché hai questa personalità online e io azienda non solo ti permetto di svilupparla ma ti premio, perché se aumenti la tua influenza in modo indotto aumenti anche quella dell’azienda. Quindi non solo ti consento di farlo, ma ti insegno come farlo meglio. E siccome la capacità di essere influencer prescinde dai ruoli aziendali, il 100% delle persone di un'azienda va “attenzionato”, non per fare un ranking ma per conoscere il potenziale patrimonio: facendo scouting si scoprono ruoli duali interessantissimi, passioni personali. Una grande passione non apprezzata dall’azienda è motivo di frustrazione, mentre se è riconosciuta può essere messa a valore. Il passaggio è quello dal professionalismo all’ingaggio diffuso.
Tu vali anche perché hai questa personalità online e io azienda non solo ti permetto di svilupparla ma ti premio, perché se aumenti la tua influenza, aumenti anche quella dell’impresa.
Perché oggi contano così tanto l’engagment e la motivazione, anche sul lavoro?
L’ingaggio di tutti i collaboratori, anche rispetto al cambiamento e ai valori dell’azienda, è la vera sfida perché le persone sono un asset fondamentale dell’azienda. Se le persone non sono ingaggiate deperiscono come valore. Oggi le aziende hanno un problema fortissimo di influenza negativa, qualunque dipendente o collaboratore può fare danni enormi in Rete perché si sente demotivato e libero di dire ciò che vuole, senza la consapevolezza dei danni che può causare. Casi così accadono ogni giorno, basta andare in treno per accorgersi di quanto spesso e con quanto astio una persona parli male della propria azienda, citandola in maniera del tutto riconoscibile. Tutto ciò invece potrebbe essere affrontato con pochissimo impegno e spesa da parte dell’azienda.
La digital reputation personale del collaboratore ha valore solo sul fronte commerciale?
No, i collaboratori portando la loro personale credibilità sono influencer strategici su un ecosistema largo, non solo sul potenziale cliente. Innanzitutto lo sono verso altri potenziali lavoratori, nell’employment branding, perché la capacità di un brand di essere attrattivo verso i migliori talenti dipende da come i lavoratori attuali portano il brand aziendale verso il mercato.
Servono delle caratteristiche particolari per diventare influencer?
Ovviamente servono delle digital skills che l’azienda deve riconoscere e sviluppare nelle persone. È vero ad esempio che i millennial hanno maggiori attitudini all’uso di strumenti digitali ma mancano di quelle regole di buon senso che sono radicate nelle generazioni precedenti. Quando facciamo scouting con le aziende, noi cerchiamo cinque “super poteri digitali” che uno deve avere, pensando a questa nuova dimensione di brand ambassador: knowledge networking, virtual communication, digital awareness, creativity, self empowerment.
La capacità di essere influencer prescinde dai ruoli aziendali. Servono però cinque "superpoteri digitali", che l’azienda deve riconoscere e sviluppare.
Possiamo vedere nel dettaglio questi cinque superpoteri?
Knowledge networking significa mettere a disposizione la propria conoscenza e svilupparla nel tempo all’interno di comunità di esperti. In un'epoca di knowledge working la conoscenza si sviluppa sempre più ai confini dell’organizzazione e se c’è un’intelligenza collettiva amplificata, l’azienda diventa veloce, permeabile alle idee. Virtual communication è la capacità di esprimere proprie le idee e la propria leadership con efficacia in un mondo virtuale e non fisico, la capacità di lavorare attraverso team dispersi: ad esempio come si fa team building nello smart working? La digital awareness è la saggezza digitale, il comprendere gli impatti positivi e negativi che possono derivare dalla propria azione nel digitale. L’attenzione alla confidenzialità dell’informazione, il sapere dove e come esse possono venire condivise. È un buonsenso che tendiamo a perdere di fronte al digitale e le nuove generazioni su questi sono molto fragili. Con creativity intendo che nello sviluppo dei contenuti e nell’uso di nuovi canali occorre saper fare diversamente le cose che l’azienda fa già. I nuovi strumenti sono disponibili per tutti, la differenza la fanno la velocità e la capacità di comunicazione e coinvolgimento, bisogna usare il digitale per fare diversamente. Infine la self empowerment è non aver paura del cambiamento, lo sviluppare un atteggiamento positivo verso il nuovo. Questi superpoteri digitali possono trovarsi ovunque, al di là del ruolo aziendale e sono trasversali: per questo l’assessment è importante, perché esistono modalità molto diverse di esercitare il potenziale ruolo di influencer.
Esistono delle case history?
Abbiamo lavorato con Enel, Generali Italia, Hera. L'assessment è un percorso che sta a metà tra la comunicazione, l’engagment, la sensibilizzazione, la formazione: l’azienda conoscendo le caratteristiche delle proprie persone le può ingaggiare diversamente. Con Generali Italia sono state identificati dei potenziali semplificatori, che sono stati ingaggiati in un hackhaton su un’isola di Venezia, in questo caso si è trattato di ambasciatori interni, è stato un grande successo. Enel sulla trasformazione digitale ha messo in atto percorsi di engagment capillare con 60mila collaboratori nel mondo, compreso l’elettricista che sta sul traliccio in Russia e i champion dell’innovazione sono stati un impiegato amministrativo e un un manutentore, questo per dire che si è ambassador verso l’esterno ma anche verso l’interno, anzi la dimensione verso l'interno è una fondamentale perché essere capaci di recepire e realizzare i cambiamenti è la prima sfida oggi per le organizzazioni.
Cosa si aspetta per il futuro? Quanto tutti dovremo imparare a fare i conti con questa nuova funzione di brand ambassador?
Mi rifaccio alle primissime cose che ci siamo detti. Il mercato del lavoro è destinato a cambiare fortemente, in direzione di una sempre maggiore individualità dei talenti. Ciascuno di noi avrà un valore che sarà funzione della propria capacità di essere credibile, di comunicare e di influenzare gli altri. Il miglior asset che i giovani possono creare per se stessi è sapersi muovere efficacemente in rete: quelle cinque skills che dicevo prima sono ciò che li rende appetibili per l’azienda di oggi e che insieme costituiscono il loro bagaglio di employability esterno. Non si sa dove lavoreranno domani né in che funzioni, ma di sicuro l’asset fondamentale che avranno è il proprio brand in Rete.
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