Il valore delle storie: così storytelling diventa brand
Narrare necesse est. Abbiamo tutti bisogno di raccontare. «È sempre stato così ed è ancora così. Poiché noi esseri umani siamo le nostre storie e le storie hanno bisogno di essere raccontate». Lo insegnava Odo Marquard, una figura tra le più autorevoli nello studio della sensibilità estetica contemporanea.
Questo perché la narrazione è un fenomeno universale e le attività umane che prevedono l'uso delle storie sono virtualmente infinite e ogni volta che narriamo una storia entrano in gioco i nostri circuiti cerebrali. Siamo, letteralmente, fatti di storie.
Dallo storytelling al capitale narrativo
Tutte le storie, sono storie che hanno contenuti. Ma non tutti i contenuti generano storie. Lo storytelling, spiega Andrea Fontana – sociologo della comunicazione, Premio Curcio alla cultura 2015 e TEDx Speaker, oltre che imprenditore e storytelling activist – serve per creare significati che creano a loro volta legami. In una parola: story-driven content. Legami con il pubblico, legami con le comunità. Legami di vita.
Disciplina? Non proprio e Fontana non è d'accordo. Oggi, a dieci anni dall'ingresso del termine e della scienza della narrazione in Italia, è opportuno ricordare che lo storytelling è ben altro. «È un mindset: è la piattaforma di vita e di lavoro in cui esistiamo».
Fontana individua quattro fasi, che contraddistinguono questi 10 anni di storytelling in Italia: una fase scettica, tra il 2009 e il 2011; una fase istintiva, fino al 2014; una fase romantica, dal 2014 al 2018, e una fase mainstream, iniziata nel 2018 e tutt'ora in corso.
Dieci anni fa, di storytelling quasi non si parlava. Che cosa è cambiato in questi anni?
Per parlare di storytelling dobbiamo innanzitutto capire i grandi cambiamenti che sono avvenuti nel modo in cui comunichiamo. Soprattutto, è cambiata la modalità con cui costruiamo e condividiamo la conoscenza. Se prima ci muovevamo in una forma di conoscenza derivata da fonti oggettive, adesso l’individuo e la soggettività hanno la meglio. Da una conoscenza oggettiva, siamo dunque passati a una conoscenza soggettiva e dunque autobiografica, sempre più basata sulle proprie esperienze personali e la propria storia di vita personale. È questo scenario che ci porta a parlare di storytelling. La questione è capire come la narrazione, i racconti personali, di marca o di individuo, sono diventati preponderanti. Comprendere questo passaggio, permette di comprendere perché, ad un certo punto, si inizia a parlare sempre più di storytelling. Lo si fa perché il racconto è diventato una piattaforma di vita e di business.
[legacy-picture caption=”” image=”8e1df79e-e2fc-4208-a025-e6d8c582dbee” align=””]Fare storytelling significa comunicare attraverso racconti e rappresentazioni che partono da proprie esperienze di vita e sono tendenzialmente emozionanti
Lo storytelling non è una disciplina o una tecnica?
Non c’entra nulla la disciplina o l’approccio. Lo storytelling è una modalità diversa con cui le persone si relazionano le une alle altre e attraverso la quale si coinvolgono. L’informazione lineare descrittiva non è più coinvolgente o è meno coinvolgente che in passato. Se lo storytelling è una piattaforma di vita e di business è anche una competenza, che bisogna padroneggiare e saper costruire. Fare storytelling non significa “raccontare storie”, come generalmente si traduce – male – il concetto. Fare storytelling significa comunicare attraverso racconti e rappresentazioni che partono da proprie esperienze di vita e sono tendenzialmente emozionanti perché recuperano e mettono in scena un vissuto personale.
Questo vale anche per le organizzazioni, non solo per i soggetti…
Totalmente. Quando parliamo di “soggetto” intendiamo tanto il soggetto personale quanto il soggetto organizzativo e, di conseguenza, quando tutto viene esteso al marketing o al branding parliamo di branding personale, organizzativo, istituzionale o aziendale.
Coinvolgere: la governance delle emozioni
Coinvolgere è la parola chiave, dunque. Attraverso il coinvolgimento si può valorizzare o attivare una sorta di bringing capital, un capitale di storie che gettano ponti tra soggetti…
La comunicazione classica descrittiva, da cui tutti proveniamo, è basata sui key-message: le informazioni specifiche che una persona, un brand, un’azienda ti devono trasferire. Mentre lo storytelling è basato sulle key-emotions: sono le emozioni chiave che devono arrivare dritte al cuore. Le informazioni, che comunque ci devono essere, arrivano dopo. Lo storytelling è la dinamica che coinvolge, partendo da emozioni chiave. Il fatto che, poi, questa dinamica riguardi un individuo che diventa influencer o il racconto di una marca che diventa portatore di nuovi valori di consumo cambia poco, perché la dinamica è la stessa.
Se non possiamo ridurre lo storytelling al "raccontare storie", ancor meno lo possiamo fare per un concetto che, in questi mesi, sta sempre più prendendo piede: il capitale narrativo. Che cos'è il capitale narrativo?
Il capitale narrativo è la capacità di potersi raccontare e di poter quindi ottimizzare o esaltare il proprio vissuto di vita tanto da renderlo condivisibile con gli altri e accettato dagli altri.
Gettare ponti: il capitale narrativo
Il capitale narrativo diventa quasi un “prodotto”…
Esattamente, anche se il termine prodotto può sembrare brutto. Potremmo dire che il capitale narrativo permette alla nostra vita di diventare un elemento di condivisione e di esemplarità per gli altri. La capacità di raccontarci genera la narrability, ossia capacità narrative specifiche e sviluppate, mentra la narrabilty porta ad avere capitale narrativo. Se senza il capitale narrativo vali “1”, nel mercato dell’attenzione la narrability estende il tuo capitale narrativo da “1” a “n” volte, generalmente ci si accorda che questa estensione sia da 1 a 37. Un algoritmo ci permette di capire come grazie alla narrability si può aumentare il proprio valore di partenza nel percepito sociale dell’attenzione trentasette volte tanto il valore, anche economico, del capitale narrativo.
Ci sono ancora delle resistenze?
Siamo passati dalla dimensione istintiva dell’approccio narrativo a una dimensione sempre più scientifica e organizzata e organizzativa. C’è ancora molta strada da fare. In Italia si sente ancora dire che lo storytelling non serve a niente, mentre oramai nel mondo il dibattito è andato oltre perché ha già assodato lo storytelling come competenza di base manageriale ed esistenziale. In senso lato le aziende stanno capendo che tutto il tema dell’intangibile, del percepito, della reputazione oggi nel regno dei deep media, che sono media che ci portiamo addosso e raccolgono le nostre storie di vita, queste tecniche fanno la differenza.
Il capitale narrativo è la capacità di potersi raccontare e di poter ottimizzare il proprio vissuto tanto da renderlo condivisibile con gli altri
Viviamo in un content continuum, un flusso dove siamo costantemente sotto assedio testuale e visivo. Il tutto in uno spazio simbolico in cui contenuti di ogni genere e forma competono tra loro. In un solo minuto, su Instagram, vengono caricati 337mila post. Ogni nostro gesto, on e off line, rimane comunque sempre on life, ovvero esposto e incardinato in trame narrative. È una fiction economy, dove il capitale narrativo conta. E conta molto. Per questo, un buon uso del capitale narrativo è necessario. Poiché la narrazione è diventata un asset strategico nel business e una competenza chiave nel branding nella gestione del cambiamento personale e organizzativo questa capacità di valorizzare il proprio capitale narrativo in un contesto dove l'attenzione è diventata la merce più scarsa – e più richiesta – è una risorsa che può rivelarsi vitale.