Ecco che lavoro fanno i Chief Happiness Officer
I Chief Happiness Officer, i manager della felicità, svolgono una funzione strategica, urgente e necessaria e possono concretamente aiutare le aziende a prosperare. L’efficacia delle loro azioni, inoltre, può essere misurata in relazione agli impatti che producono sui KPI dell’azienda. Non organizzano solo eventi o iniziative spot (come i team building), ma definiscono azioni di lungo termine.
Sono richiestissimi. Con le loro azioni portano la felicità in azienda, creano armonia, benessere e motivazione a beneficio dei dipendenti, dell’organizzazione e della stessa produzione. I Chief Happiness Officer (CHO), i manager della felicità, sono professionisti esperti, capaci di riorganizzare in modo strategico i processi strutturali, manageriali e culturali delle società in cui operano. Non c’è niente di etereo in quello che fanno: l’efficacia delle loro azioni può essere misurata in relazione agli impatti che producono sui Key Performance Indicators – KPI (indicatori chiave di prestazione) dell’azienda.
«Le esperienze e le ricerche sul campo stanno dimostrando che, oggi più che mai, i Chief Happiness Officer svolgono una funzione strategica, urgente e necessaria e possono concretamente aiutare le aziende a prosperare nel cosiddetto mondo VUCA (volatile, incerto, complesso, ambiguo)», commenta Veruscka Gennari, autrice, insieme a Daniela Di Ciaccio, del libro “Chief Happiness Officer. Il futuro è delle organizzazioni positive” (FrancoAngeli, 2020) in cui spiegano chi è e cosa fa il professionista che può portare la felicità in azienda.
I primi 250 CHO in Italia
Nel 2015, Gennari e Di Ciaccio hanno fondato “2BHappy Agency” la prima agenzia in Italia nata con lo scopo di favorire la diffusione della Scienza della Felicità e la crescita di Organizzazioni Positive (ORG+), e, nel settembre 2019, hanno certificato i primi 54 Chief Happiness Officer italiani. «A oggi, e nonostante i due anni di pandemia, i CHO certificati da 2BHappy sono già 250 e contiamo di arrivare a 300 entro la fine del 2022», spiega Di Ciaccio. «Il nostro obiettivo è quello di avere un CHO in ogni organizzazione italiana».
Non solo team building
«A dispetto delle immagini più o meno stereotipate che identificano il “manager della felicita” con una persona che vuole organizzazione il nostro tempo libero e proporre attività di natura motivazionale – sottolinea Gennari – il CHO non organizza solo eventi o iniziative spot (come team building o feste), ma definisce azioni di lungo termine sia sul versante dei risultati (come la formazione, il miglioramento dei processi, il job crafting ossia l’assumere comportamenti proattivi), sia sul piano della qualità delle relazioni».
Il lavoro del Chief Happiness Officer somiglia a quello di un direttore d’orchestra che, potendo disporre di una ricca e multiforme cassetta degli attrezzi, è in grado di avviare concretamente il processo di trasformazione positiva di tutta l’organizzazione.
Il Chief Happiness Officer, chiarisce Di Ciaccio, «è un complexity thinker: un professionista capace di applicare i principi che derivano dalla ricerca scientifica (nello specifico, quelli sul funzionamento psico-neuro-biologico degli esseri umani) in sistemi complessi (le organizzazioni)».
Il suo lavoro, sottolinea ancora, «somiglia a quello di un direttore d’orchestra che, potendo disporre di una ricca e multiforme cassetta degli attrezzi, è in grado di avviare concretamente il processo di trasformazione positiva di tutta l’organizzazione. Per questo lo si può intendere non come l’ennesimo ruolo da aggiungere in organigramma, quanto più un set di competenze aggiornato ai nostri tempi che vanno a completare e arricchire i profili di figure professionali già presenti in azienda: HR manager, CEO, imprenditori, welfare e community manager».
Ma perché sempre più aziende si interessano alla felicità dei dipendenti?
Fino a qualche tempo fa il binomio felicità-lavoro sembrava un’utopia. Per molti, moltissimi, lo è ancora, ma per diversi, fortunatamente, le cose stanno cambiando, dato che sempre più aziende hanno avviato una rivoluzione culturale nello stile di gestione delle persone, consapevoli che il loro successo passa anche per il grado di felicità, soddisfazione e coinvolgimento delle proprie risorse, e non solo per il raggiungimento di specifici obiettivi di profitto.
«Abbiamo a disposizione numeri, ricerche e una vastissima fonte di contenuti, a firma di uomini e donne di scienza, che dimostrano in modo incontrovertibile che il modo in cui è organizzata l’attività lavorativa esercita forti ripercussioni sulla felicità di chi lavora e genera motivazione, performance, creatività, innovazione, resilienza», dice Di Ciaccio. «Non è dunque vero, come si continua a pensare, che il lavoratore sia unicamente interessato alla remunerazione. E poi – aggiunge – un vecchio adagio dice che “le persone lasciano i propri capi, non le organizzazioni”. La realtà non si discosta tanto dal senso comune: l’inefficacia della leadership è di fatto la terza causa per cui le persone mediamente lasciano le aziende».
Le organizzazioni positive
Le due manager hanno anche fondato nel 2019 l’Italian Institute for Positive Organizations, un centro studi che fa ricerca sulle Organizzazioni Positive in Italia, quelle che, accanto a tutta una serie di benefit che lavorano sulla soddisfazione dei bisogni, si prendono anche cura delle persone, offrendo opportunità di formazione, sviluppo personale e culturale. In Italia abbiamo Mondora, Servizi CGN, Asp Martelli, Zeta Service, eFM, Heply, Assiboni, Unifix, Copying, solo per citare alcuni esempi, e i numeri sono in rapida crescita.
Tra le Organizzazioni Positive straniere figurano le statunitensi Patagonia Disney, Virgin e Pixar; la danese Sprout (produttrice delle matite che posso essere piantate); la svedese Ikea e l’inglese Pret a Manger. Molte di queste sono B- corp cioè aziende che lavorano in maniera responsabile, sostenibile e trasparente, perseguendo uno scopo più alto del solo guadagno.
La scienza della felicità
La Scienza della Felicità applicata a contesti organizzativi, comunque, non è una moda del ventunesimo secolo, ma ha quasi 100 anni di storia alle spalle. Infatti, lo studio “Happy Productive Worker“, che risale agli anni ’20, ha già dimostrato che il benessere dei dipendenti porta a un aumento della produttività e dei profitti. Da allora, centinaia di pubblicazioni scientifiche hanno evidenziato la positiva correlazione tra il benessere dei dipendenti e le misure aggregate di livello aziendale a livello di performance in tutti i tipi di industrie. E sono molte le realtà estere che da anni fanno ricerca su questi temi, come il Center for Positive Organizations (costola dell’Università del Michigan) e il Greater Good Science Center dell’Università di Berkeley.