Christian Cipriani: I ricercatori italiani sono tra i migliori. Ma non sappiamo diventare imprenditori


Dall’aspirapolvere autonomo Roomba, alla Tesla di Elon Musk con intelligenza artificiale incorporata ormai siamo immersi all’interno di un mondo automatizzato. Robotico. A immaginarlo, prima ancora che realizzarlo, c’è uno stuolo di ingegneri che, fra mille difficoltà, fanno a gara per accaparrarsi il finanziamento giusto. Fra questi c’è anche Christian Cipriani, ingegnere elettronico che ha trovato nella biorobotica (la disciplina che fonde automazione e ingegneria biomedica) la sua strada. Un percorso che lo ha portato, a fine 2017, alla direzione dell’omonimo istituto all’interno delle Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa. Un centro di eccellenza, dove la teoria incontra la pratica e sforna progetti all’avanguardia. Un luogo dove «consentire a tutti i ricercatori che ci lavorano di realizzare i propri sogni», sintetizza Cipriani. Il tutto mantenendo la barra dritta sull’obiettivo di migliorare la vita delle persone, soprattutto di quelle che – come gli amputati – attraverso la tecnologia possono riappropriarsi di un rapporto pieno con il mondo circostante.

Come si è avvicinato alla biorobotica?
Non c’è nessun motivo speciale per cui mi sono avvicinato alla biorobotica. Mi spiego meglio, io ho studiato ingegneria elettronica e il giorno in cui mi sono laureato nasceva una nuova scuola di dottorato, l’IMT di Lucca, la mia città natale. Trovai la notizia sul giornale della provincia e decisi di partecipare al bando perché a me interessava soprattutto la parte robotica degli insegnamenti. D’altronde, sono sempre stato una persona interessata alle cose che si muovono, a capire il funzionamento degli oggetti. Per un caso totalmente fortuito mi son trovato davanti l’occasione giusta e lì, durante il mio dottorato in biorobotica, ho potuto concentrare le mie ricerche sul settore delle protesi che mi ha da subito appassionato e invischiato.

Quale cammino si può intraprendere, oggi, per specializzarsi in questa disciplina?
I modi per accedere a questo mondo sono molteplici. Da un lato, infatti, c’è la parte ingegneristica: elettronica, meccanica, informatica, biomedica. Questi profili rappresentano il pool principale dei dottorando in biorobotica e delle altre figure che negli anni hanno collaborato con il nostro istituto. Si tratta della via principale d’accesso alle attività che portiamo avanti alla Scuola Sant’Anna. Sostanzialmente, attraverso un corso di laurea in una di queste materie si va a coprire, successivamente, una delle parti necessarie alla composizione di un robot specializzandosi o ampliando le proprie conoscenze. Dall’altro lato, l’accesso alla biorobotica può avvenire anche attraverso un percorso di studi in biologia, neoroscienze, psicologia e nei settori specificatamente clinici. Insomma, alla base della disciplina biorobotica c’è un mix di competenze che si completano a vicenda andando oltre il semplice meccanismo o il classico rapporto “lucetta accesa-lucetta spenta”.

I nostri ricercatori accedono a pochi fondi, ma occupano senza dubbio un posto fra i primi sei o sette al mondo come impatto della ricerca.

Christian Cipriani, direttore dell istituto di biorobotica alla Scuola Sant Anna di Pisa

Al centro delle sue ricerche c’è il sistema mio-cinetico. Che cos’è?
Innanzitutto, partiamo subito col dire che mio-cinetica è una parola che non esisteva e che ci siamo inventati noi per definire un nuovo sistema, un’interfaccia, che ha l’ambizione di misurare le contrazioni muscolari di un arto amputato. Prendiamo, per esempio, il caso della persona senza un braccio. Questo presenta una muscolatura residua che precedentemente andava a muovere le dita di una mano. Inserendo dei marker magnetici all’interno di questi muscoli residui, l’obiettivo è capire come si contraggono e qual è l’intenzione della persona per completare certe azioni. Il tutto per implementare questa conoscenza all’interno di una protesi artificiale che possa restituire la presa, le capacità gestuali e la piena operatività manuale a una persona. In sostanza, l’idea è quella di cercare di convertire l’intenzione di un soggetto in azione, leggendo il campo magnetico generato dai magneti che si muovono insieme ai muscoli quando quest’ultimi si contraggono. A lavorare su questo tema noi dell’Istituto Sant’Anna siamo i primi. Si tratta di un settore emergente su cui abbiamo focalizzato le nostre attenzioni a partire da tre anni e che gode dei finanziamenti provenienti dal Consiglio europeo della Ricerca. Davanti a noi abbiamo ancora alcuni anni di studio finalizzato a realizzare il primo impianto su una persona.

Lei è entrato in carica come direttore dell’Istituto di biorobotica della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa da dicembre 2017. Che ambiente è e che mission si è dato?
La Scuola Superiore Sant’Anna è un’università pubblica, quindi finanziata dal Miur, a statuto speciale, ossia con un accesso privilegiato agli studenti meritevoli. Oltre al collegio e alla didattica rivolta agli allievi ordinari, la Scuola Sant’Anna ha come missione la ricerca che si sviluppa e viene condotta attraverso sei istituti. Di questi, la metà afferisce alla classe di scienze sperimentali, l’altra alla classe di scienze sociali. Nel primo gruppo si inserisce anche l’istituto di biorobotica che dirigo. L’incarico durerà almeno per i prossimi tre, quattro anni con l’obiettivo di consolidare l’eredità scientifica che ho trovato. D’altronde, sebbene gli istituti siano nati formalmente nel 2011, raccolgono il testimone dei laboratori di ricerca che esistevano fin dall’inizio degli anni Ottanta e che qui a Pisa possono essere ricondotti al nome del nostro fondatore, e mio predecessore, il professore Paolo Dario. Data l’importanza della sua figura per tutto il panorama della robotica italiana e l’attività pionieristica anche a livello didattico e formativo, facendo fiorire dal nulla uno dei centri più importanti per la nostra attività, a me non resta che garantire maggiore solidità a un ente che è già fra i leader in Italia e in Europa per quanto riguarda la biorobotica.

Per riuscire a fare tutto ciò, come affronta la competizione sia accademica che economica?
La competizione è altissima, sia in Italia che in Europa. In particolare, nel nostro Paese, il livello è così elevato da diventare, paradossalmente, un terno al lotto. Nel senso che i fondi di finanziamento ordinario sono ai minimi storici da diversi anni e la platea dei richiedenti è molto vasta, quindi quando si compete per questi crediti le probabilità di vincerli sono bassissime. Caratteristica che rende l’intero sistema insostenibile. Questo, ovviamente, non significa che i finanziamenti non arrivino, ma è un processo complicato, di cui non sono note le tempistiche, in cui la burocrazia pesa molto. A livello continentale, i finanziamenti più importanti e ingenti sono quelli della Commissione europea ma ce li dobbiamo sudare perché i pretendenti non mancano. Anzi, aumentano ogni volta che la comunità si allarga. E per vincere bisogna lavorare, sacrificare qualcosa per raggiungere certe soddisfazioni senza accontentarsi. In questo contesto, a contare sono le performance. In una recente ricerca, la Scuola Sant’Anna ha totalizzato il più alto rate di finanziamenti europei per docente. La stessa dinamica si rispecchia anche all’interno dell’istituto che dirigo e che attualmente è a capo di sei progetti europei.

Va meno bene il passaggio successivo: trasformare la novità, l’originalità della ricerca in prodotti e processi altrettanto innovativi. Su questo siamo un po’ indietro come cultura e approccio imprenditoriale.

Christian Cipriani, direttore dell istituto di biorobotica alla Scuola Sant Anna di Pisa

Dal suo osservatorio privilegiato, come giudica il grado di innovazione e ricerca in Italia?
Supportato dai vari dati che si possono trovare liberamente in rete, credo che la ricerca italiana vada molto bene. Certo i nostri ricercatori magari accedono a pochi fondi, ma occupano senza dubbio un posto fra i primi sei o sette al mondo come impatto della ricerca. Siamo più efficienti degli americani, per dire. Quello che va meno bene è il passaggio successivo: trasformare la novità, l’originalità della ricerca in prodotti e processi altrettanto innovativi. Su questo siamo un po’ indietro come cultura e approccio imprenditoriale. Qui non siamo nella Silicon Valley, insomma. Aziende spin-off nascono, ma difficilmente crescono. Quando trovano dei finanziamenti sostanziosi magari devono vendersi l’anima al diavolo. Oppure restano schiacciate da una burocrazia nemica delle piccole aziende innovative. Pure io mi sono impegnato in prima persona a livello imprenditoriale e le assicuro che a volte c’è da mettersi le mani nei capelli: devi diventare esperto di sicurezza, avvocato, commercialista tutto insieme. Troppe cose da imparare di cui si farebbe volentieri a meno. Anche i più volenterosi si trovano in un ambiente ingessato, conservatore, in cui la ricchezza non viene investita. Per fortuna non mancano aziende illuminate, che capiscono che l’innovazione è necessaria per rimanere competitive sul mercato. Peccato che siano ancora troppo poche.

Di |2024-07-15T10:05:13+01:00Ottobre 26th, 2018|Formazione, Innovazione, MF|0 Commenti