Ci stanno rubando il lavoro
“Lavoro” è una parola che non sembra aver bisogno di spiegazioni. Ma siamo sicuri di sapere cosa significa? Per gran parte delle persone, infatti, “lavoro” significa soltanto “pratica”: così però si perdono un sacco di sfumature. In più, per la prima volta nella storia, si è fatta esplicita una predicazione anti-lavorativa il cui risultato è pensare che la vita vera, dotata di significato, sia solo quella al di fuori del lavoro. Ecco quindi la necessità di un “manuale di educazione al lavoro per i giovani”: più di duecento pagine che provano a rifare innamorare i giovani del “lavoro buono”. A firmarlo è Dario Nicoli, docente di Sociologia economica e del lavoro all’Università Cattolica di Brescia.
A cosa servono i giovani nella società e nel lavoro? Lei chiude il volume con questa domanda, noi cominciamo da qui.
È semplice, i giovani servono perché devono dare calore e futuro alla società, che senza giovani muore di freddo e manca di futuro, non ha lo sguardo in avanti, si limita a conservare quello che ha. La civiltà è un corpo vivente, con un carattere fondamentalmente generativo: mettendo i giovani in stand by, la civiltà di fatto smettere di vivere. Mettere i giovani al lavoro al contrario significa permettere ai giovani di aggiungere la loro novità alla nostra società. “Lavoro” infatti non è solo il produrre beni e servizi ma anche il procedere nel cammino della civiltà, il portare avanti la promessa/missione che ogni civiltà ha, la manifestazione dell’amore per la vita.
Che cosa intende?
Il lavoro è la parte progettuale dell’anima della società. Quando una società “sente” qualcosa, questo sentire si manifesta nel modo in cui essa lavora. La nostra al contrario è una società bloccata fondamentalmente perché non sente più nulla e infatti per la prima volta nella storia è diventata esplicita la negazione del lavoro. Siamo nel pieno di una crisi culturale che nutre scetticismo sulla nostra identità, tant’è che da un lato abbiamo una disoccupazione giovanile al 26-27% e dall’altra abbiamo imprese che sanno già che non troveranno 250mila persone da qui al 2025. Il fondo della crisi non è economico ma di senso, significato e identità. Si vogliono vestire i giovani di un pensiero da vecchi, con la prospettiva di “una vita in vacanza”: il messaggio è “non siete attesi”, non sappiamo che farcene di voi, non c’è bisogno del vostro apporto, cercate di sopravvivere, consumate quello che c’è fintanto che c’è e cercate di godervela, seguendo i vostri bisogni, che sono l’unica verità. Non c’è un compito per voi, l’unica missione possibile, al limite, è quella di indignarsi.
La nostra è una società bloccata perché non sente più nulla e infatti per la prima volta è diventata esplicita la negazione del lavoro
Perché serve un “Manuale di educazione al lavoro per i giovani”?
Con la crisi è emersa con forza la necessità di una nuova competenza, che è quella di sapersi porre in modo adeguato davanti alla realtà. In questi anni di crisi, i giovani rischiano di essere irretiti da un lato dallo scetticismo e dall’altro di seguire un’idea sbagliata di sogno, di un sogno campato per aria. Il lavoro invece presuppone sempre il pensiero che ciò che uno sente deve essere una risposta a un bisogno di qualcuno altro. Questo è il lavoro, mettere i talenti di ciascuno in rapporto ai bisogni dell’altro: diversamente è un atto artistico isolato, un’estetica dell’esistenza. Oggi ci sono moltissimi ragazzi così, che inseguono un sogno che altro non è che un dialogo interiore esagerato, una proiezione di puro soggettivismo: ma la verità ce l’hanno gli altri e la realtà è la relazione. La struttura del lavoro è servizio. Cosa posso fare io per gli altri? Come posso io contribuire con ciò che so fare? Questa è la domanda da porsi. Invece ci sono moltissimi ragazzi – non di 14 anni ma di 18 o di 25 – che hanno idee sul proprio futuro lavorativo buone in sé ma completamente disancorate dalla realtà e dal rapporto con gli altri, fra l’altro con un’immaginazione limitata. Quindi un manuale serve per quattro cose: perché imparino a mettere i loro sogni con i piedi per terra; a cercare qualcuno a cui dare il proprio apporto; a distinguere fra la precarietà buona e quella cattiva; a cambiare progetto quando si accorgono che non funziona o che si è affacciata un’altra opportunità.
Con la crisi è emersa con forza la necessità di una nuova competenza: sapersi porre in modo adeguato davanti alla realtà.
Gran parte del volume ripercorre e approfondisce il significato del lavoro, in tutte le sue sfumature, nelle varie epoche storiche. Cosa il lavoro non è (o non solo)? E quali significati abbiamo perso?
“Lavoro” non è solo fare qualcosa, un’attività – quella che sia – funzionale a portare a casa uno stipendio. Perché allora la mia vita ha significato nel tempo libero, quando non lavoro. Come se la vita fosse sospesa nel tempo del lavoro, che mi serve solo per avere il denaro necessario a vivere come voglio nel tempo di non lavoro. Il lavoro non è neanche una grande nave che va ma non si sa dove va, senza senso. Per lavorare bisogna dare un senso alle cose, deve avere un legame con il mio mondo personale. Non è nemmeno, lo abbiamo già detto, la proiezione del sogno di un individuo, un’agitazione della civiltà in cui i singoli cercano di manifestare se stessi… Il primo significato del lavoro è il mistero del rapporto tra il singolo e la collettività: come è possibile che di fronte a tante necessità e lavori, poi una persona trovi il “suo”? Magari ci mette anni, ma la parte buona del lavoro è cogliere questo mistero tra persona e comunità. Si è perso il significato di una comunità dove ciascuno collabora al bene di tutti: la persona dal lavoro ottiene un riconoscimento che dà consistenza al suo io.
“Lavoro” non è solo un’attività funzionale a uno stipendio. Perché allora la vita ha significato solo nel tempo libero dal lavoro.
Cos’è che caratterizza un lavoro buono?
È buono quando procura un beneficio reale alle persone, alla comunità, al rapporto con la natura, qualsiasi cosa fai. Quando porta con sé un ampiamento del bene, quando concorre a rendere migliore la vita. Quando è fatto a regola d’arte: oggi è molto è complicato perché c’è un mondo di temi da rispettare, ecologici, di privacy, di salute… Quando è affidabile, ossia quando contiene una relazione fra persone: oggi se hai un problema invece ti perde nella giungla di FAQ e istruzioni vocali, non riesci mai a parlare con qualcuno. Quando facendo le cose che fai, impari. Quando c’è corrispondenza in termini di denaro con il valore dell’apporto che hai dato. Quando c’è una crescita dello stipendio proporzionale alla crescita professionale. Quando uno va a letto ed è cosciente di aver fatto la sua parte. Quando puoi avere interessi che non sono il lavoro.
Come si educa al lavoro un giovane?
Per prima cosa dobbiamo riconoscere che i metodi di orientamento che abbiamo utilizzato non hanno funzionato, tant’è che abbiamo giovani che a 25 anni non riescono a rispondere alla domanda chi sei, dove sei, cosa ti piace fare… Sono “ragazzi bho”, vittime dello stordimento del nostro tempo Ci vuole un orientamento nuovo, che si chiama ingaggio, bisogna metterli in gioco con più alternanza e più didattica attiva. Ma anche con dei “cantieri d’opera” per i giovani, soprattutto per quelli che non sanno cosa vogliono e per quelli che hanno sogni che veleggiano nell’aria: un movimento educativo che dia loro occasioni, sentieri di ingresso con un adulto che sa fare e che si prende cura della loro crescita. Questa è la vera fortuna oggi.