Data Journalism: la narrazione dei dati nel futuro dell’informazione
Viviamo nell’era della post-verità, termine che nel 2016 l’autorevole Oxford Dictionary scelse come parola dell’anno, segno di un mutamento radicale nella formazione dell’opinione pubblica. Nell’epoca della post-truth la conoscenza del reale non è il risultato di un rigoroso processo razionale, la consultazione di fatti storici e oggettivi, ma piuttosto una grumosa miscela di credenze, emozioni e interpretazioni. La verità, anche la più ovvia, viene destrutturata, sminuita e, infine, cancellata e questo accade nonostante o, sarebbe meglio dire, a causa, dell’enorme quantità di dati e di informazioni che quotidianamente inonda i nostri spazi fisici e virtuali. Siamo in qualche misura, e più o meno consapevolmente, tutti vittime dell’overflow informativo: un eccesso di narrazione mediale che, invece di arricchirci e allenare il nostro pensiero critico, rischia di renderci più poveri e indifferenti.
Nell’epoca della post-truth la conoscenza del reale non è il risultato di un rigoroso processo razionale, la consultazione di fatti storici e oggettivi, ma piuttosto una grumosa miscela di credenze, emozioni e interpretazioni.
Il digitale ha reso accessibile a tutti, in ogni momento e ovunque, qualsiasi tipologia di contenuto: statistiche economiche, dati storici, ricerche scientifiche, testi di legge, relegando i tradizionali gatekeeper dell’informazione sullo sfondo. Inevitabile, dunque, che il mondo dell’editoria si trasformasse di conseguenza, con risvolti tuttavia non sempre positivi, come dimostra la pratica assai diffusa in Rete e sui social network del clickbeating. È in questo scenario che nasce e prospera il Data Journalism, un “giornalismo di precisione”, come viene anche definito, con l’importante missione di fare ordine nel caos, di restituire al dato la sua dignità e il suo scopo: raccontare con sincerità una storia significativa.
Per comprendere meglio questa affascinante branca del giornalismo e provare a tracciare un profilo professionale del “giornalista dei dati”, PHYD ha organizzato lo scorso 24 giugno il talk “Data Journalism: la narrazione dei dati nel futuro dell’informazione”, ospiti Michele Rocca e Franco Pigoli, rispettivamente Data Scientist ed Education Manager di Porini, azienda specializzata in soluzioni ERP e tra i principali partner internazionali di Microsoft.
«I dati sono ovunque», dice Franco Pigoli, «negli ultimi 4 anni il mondo del machine learning, dell’AI e dei big data ha cominciato a estendersi anche all’area più umanistica, per questo oggi si sente parlare così frequentemente di Data Journalism».
Cosa è il Data Journalism
Michele Rocca risponde partendo dalla definizione più elementare: il Data Journalism è un giornalismo che usa i dati, che parte dal dato come fonte e come portatore di una sua storia per generare da esso altre molteplici narrazioni. Rispetto al passato, naturalmente, questi dati sono di gran lunga più complessi e ibridi, non parliamo solo di fogli excel, ma di big data, di open data, di contenuti e documenti multimediali che richiedono maggiore attenzione e un ventaglio di competenze specifiche. Se in passato l’informazione attraversava passaggi sicuri per arrivare a noi, adesso è a portata di click, libera, e per questo soggetta a pericolose falsificazioni. Se «il giornalismo è il cane da guardia del potere», come dicono gli americani, il Data Journalism è un fact checking, uno strumento di verità e di verifica per tenere a bada l’iperbulimia di informazioni di cui disponiamo e offrire un racconto della realtà migliore. Questa forma di giornalismo non è altro, dice Rocca, che «l’evoluzione del metodo di un bravo giornalista».
Il Data Journalism è un giornalismo che usa i dati, che parte dal dato come fonte e come portatore di una sua storia, per generare da esso altre molteplici narrazioni.
Le competenze necessarie
Per approcciarsi a esso, bisogna possedere competenze assai eterogenee, essere in grado di muoversi con disinvoltura nel campo della statistica descrittiva e in quello delle scienze sociali, conoscere le regole e i principi della comunicazione così come i linguaggi di programmazione che consentono di raccogliere, manipolare e analizzare i dati.
Un data journalist è un insieme di professionalità, bisogna essere bravi scrittori, bravi analisti, bravi programmatori ed essere capaci di trovare i dati necessari a raccontare una storia.
Michele Rocca, data scientist di Porini
In altre parole, questo giornalista assume il compito di filtrare i dati per poi restituirli al suo pubblico in maniera inedita, interessante, chiara, come un nuovo passaggio sicuro dal rumore e dai tentativi di distorsione. La domanda è – e la pone un po’ provocatoriamente Pigoli – se un giornalismo basato sui dati può essere considerato davvero oggettivo.
Per Rocca «non esiste una risposta univoca. Un giornalismo fatto coi dati deve essere sincero, il che significa che deve essere replicabile, dando al lettore la possibilità di verificare la fonte, come avviene per i risultati di una ricerca scientifica e in questo c’è indubbiamente un’oggettività. Ma nello stesso tempo, entra in gioco l’aspetto umano, perché un giornalista ha l’obbligo morale di fornire al lettore una posizione, un punto di vista da cui partire.»
Una sintesi perfetta, insomma, tra il vecchio e il nuovo modo di fare e pensare il giornalismo, partire dai numeri per andare oltre, dove c’è l’uomo.
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