Avvocati: sempre di più sono donne
Ha infranto in mille pezzi il tetto di cristallo, Barbara de Muro, avvocata, esperta di diritto commerciale e societario. Gli ultimi vent’anni trascorsi a costruire una carriera nei principali studi legali associati del Paese. Oggi è equity partner dello Studio LCA. Madre di due figlie, de Muro è anche responsabile di ASLAWomen, gruppo di lavoro dedicato alla promozione delle donne nella professione legale sorto nell'ambito di ASLA, l'Associazione degli Studi Legali Associati. «Quando ho iniziato io, a metà degli anni novanta, le donne iscritte alla cassa erano solo il 20%», spiega. Da allora le cose sono cambiate moltissimo, eppure per le donne arrivare ai vertici è ancora difficilissimo.
A che punto sono le pari opportunità nel mondo legale?
In realtà, noi studi legali associati rappresentiamo un settore specifico. Si tratta di strutture organizzate, non necessariamente grandi, perché all’interno ci sono studi sia internazionali che realtà medie o medio piccole, non necessariamente milanesi o romane, perché ci sono anche tantissimi studi in tutte le regioni d’Italia, anche nelle province. Il nostro è uno spaccato particolare. Monitoriamo da alcuni anni la situazione delle donne e, più in generale, della diversità e vediamo che oggi tra gli stagisti e i praticanti le donne sono circa il 50%.
Il problema vero è che le donne non sono presenti ai vertici delle organizzazioni. Abbiamo solo un 20% di socie equity, cioè che partecipano alla distribuzione degli utili, e se invece guardiamo all’etichetta più ampia dei soci, che non partecipano però al rischio d’impresa e ricevono un compenso fisso, la percentuale sale al 24%, rimanendo comunque bassa. La percentuale scende nuovamente tra i managing partners, ovvero i professionisti che gestiscono uno studio: qui le donne sono solo il 13%. Di strada da fare ne abbiamo tantissima.
A livello nazionale, secondo la cassa forense, le donne guadagnano meno della metà degli uomini.
Questo divario si riflette anche sul piano della retribuzione economica?
Come Asla non abbiamo i dati dei redditi, perché non sono domande che poniamo ai nostri soci, ma a livello nazionale, secondo la cassa forense, le donne guadagnano meno della metà degli uomini. È un gap che è stato registrato a livello nazionale, su tutte le classi d’età e aumenta nelle classi anagrafiche più anziane. Inoltre il divario persiste anche quando la donna non ha figli. La differenza c’è lo stesso e, negli anni, non si recupera più.
A cosa bisogna imputare questo gap?
Le ragioni sono varie. Una è data dalla cosiddetta segmentazione orizzontale, cioè le donne spesso si indirizzano verso quelle tipologie di diritto che sembrano più consone alla nostra natura e che hanno a che fare con l’empatia, la cura, l’attenzione all’altro. Si tratta delle categorie di diritto che hanno a che fare con le persone fisiche e che sono rami meno redditizi, come, ad esempio, il diritto familiare. Sono invece meno presenti nell’avvocatura d’affari, cioè nel diritto societario, finanziario, in quello del mercato dei capitali. Questo discorso però non vale negli sudi legali associati, perché qui si fa proprio diritto che è considerato, tra virgolette, più “da maschi”. Eppure le differenze ci sono anche qui.
Vogliamo accelerare il cambiamento e riuscire a godere anche noi di questi progressi, non solo farlo per le generazioni successive.
Come si può fare per ridurre il divario?
Come Asla Women abbiamo cercato di ragionare su tutte le direzioni, coinvolgendo le avvocate e gli avvocati. Abbiamo organizzato molte attività di sensibilizzazione, per aiutare i professionisti e le professioniste ad acquisire una maggiore consapevolezza sui temi di genere, attivando progetti di formazione alla leadership e concentrandoci anche sugli individui al vertice. È importante spiegare che il linguaggio può essere diverso. Le donne, ad esempio, spesso attendono che il merito sia riconosciuto e non chiedono. Inoltre molte nostre attività sono rivolte agli studi legali associati perché queste strutture organizzate rendano più trasparenti i percorsi di carriera. Gli studi legali associati, infatti, sono realtà abbastanza recenti, sono arrivati in Italia circa venticinque anni fa e non esiste una normativa che li riguardi, ognuno ha il suo statuto, con una propria regolamentazione che spesso però è nota solo ai soci. Per questo è importante rendere noti i comportamenti premianti, la distribuzione delle pratiche, i criteri per l’assegnazione dei bonus e come si diventa soci. Questo è un lavoro in cui si diventa bravi se si vedono tante cose e si fa tanta esperienza. Il rischio è quello di essere impiegati per compiti routinari, perché si è bravi a fare qualcosa di specifico. Molte donne non chiedono che gli venga affidato un altro tipo di lavoro, ma per salire ai vertici bisogna aver fatto più cose e aver avuto il coraggio di chiedere di lavorare in ambiti diversi. È inoltre importante saper leggere bene i criteri su cui si fonda uno studio. Diventare socio è difficilissimo, ma bisogna capire come fare.
Quando ho iniziato io, a metà degli anni novanta, le donne iscritte alla cassa erano il 20% del totale. Adesso invece ci siamo e dobbiamo farci vedere e mostrare che abbiamo famiglia e che, con grandi difficoltà, si può riuscire a fare tutto.
In un Paese come l’Italia, in cui si è iniziato a parlare di diversity solo da poco e in cui la strada per l’uguaglianza di genere è ancora lunga, come si fa a comunicare e promuovere le pari opportunità?
È un tema culturale. Alla base vi è la condivisione equa dei ruoli famigliari tra uomo e donna. Ci vorrà del tempo ma le nuove generazioni sono già diverse. I giovani padri vogliono essere più coinvolti.
Come Asla adesso da tanti anni abbiamo delle linee guida che regolano il rapporto fra studi e collaboratore. Si tratta di suggerimenti non vincolanti che gli studi possono adottare. Noi come libere professioniste, ad esempio, non abbiamo diritto alla maternità, riceviamo un’indennità dalla cassa ma non abbiamo la garanzia del posto. Per questo abbiamo insistito perché fosse riconosciuto un periodo di sospensione e fosse corrisposto o un’integrazione o, nei casi più virtuosi, l’intero compenso. Qualche studio, inoltre, ha subito adottato, con risultati meravigliosi, anche la paternità.
Vogliamo accelerare il cambiamento e riuscire a godere anche noi di questi progressi, non solo farlo per le generazioni successive.
Inoltre i modelli di ruolo sono importantissimi. Quando ho iniziato io, a metà degli anni novanta, le donne iscritte alla cassa erano il 20% del totale. Di riferimenti ce n’erano molto pochi. Adesso invece ci siamo e dobbiamo farci vedere e mostrare che abbiamo famiglia e che, con grandi difficoltà, si può riuscire a fare tutto. Ci sono degli anni duri, ma se si lavora in una struttura organizzata, facendosi aiutare, si possono usare strumenti, come quello della delega, che rendono la conciliazione possibile. Alla base deve esserci però uno studio illuminato che capisca che, dopo aver investito tanti anni in una risorsa di talento, per farla crescerla, non bisogna mancare nel momento della maternità.