Donne e rifugiate: una doppia discriminazione
Essere donne ed essere rifugiate: una condizione di doppia difficoltà, in un mondo pensato principalmente a misura di uomo. Andarsene dal proprio Paese d’origine e cercare asilo in altri Stati può essere molto più complicato per le donne piuttosto, così come trovarsi un lavoro e ricostruirsi una vita in terra straniera.
«La situazione delle donne in fuga è molto complessa, perché unisce agli ostacoli propri di tutte le persone che oggi sono in movimento quelli specifici legati al genere», afferma Ilaria Boiano, avvocata e attivista femminista, membro dell’ufficio legale dell’associazione Differenza donna, autrice assieme a Giorgia Serughetti del libro Donne senza Stato. La figura della rifugiata tra politica e diritto (Futura). «Per loro il percorso migratorio può essere in gran parte determinato anche dal tentativo di sottrarsi a forme di violenza e persecuzione che in determinati contesti sociali e normativi sono non solo normalizzati, ma anche consentiti dalla legge». Nonostante questa particolarità, tuttavia, la convenzione di Ginevra non riconosce il genere tra i motivi previsti per la protezione, facendo rientrare le donne nella grande categoria di coloro che appartengono «a particolari gruppi sociali». «Il riconoscimento della protezione internazionale delle donne per motivi di persecuzione di genere viene ricondotta al motivo dell’appartenenza al gruppo sociale particolare», continua l’avvocata. «Questa scelta è molto contestata dalle rifugiate, poiché lamentano di non vedere riconosciuta la natura politica della loro ribellione. In ogni caso, oggi possiamo affermare che grazie all’articolo 60 della Convenzione di Istanbul tutti i motivi di riconoscimento della protezione internazionale previsti dalla Convenzione di Ginevra del 1951 sullo status di rifugiato devono ricomprendere le violenze di genere».
Arrivare a chiedere asilo, tuttavia, è più complesso per le donne piuttosto che per gli uomini. Questa situazione è ben fotografata da una raccomandazione del comitato Cedaw, istituito dalle Nazioni Unite per l’eliminazione delle discriminazioni nei confronti delle donne, che evidenzia che il primo elemento a essere ostacolato, per loro, è la stessa possibilità di mobilità: in alcuni Paesi, infatti, è vietato spostarsi senza un uomo. «Abbiamo raccolto la testimonianza di donne afghane che, per fuggire, dovevano dimostrare di essere accompagnate dal padre, dal fratello o dal marito», commenta Boiano, «soprattutto quando cercavano rifugio in Pakistan o in Iran. Le vie di fuga per le donne spesso sono precluse proprio dalle discriminazioni da cui fuggono». Tutto questo le espone a percorsi migratori particolarmente complessi, che a loro volta rischiano di essere degli iter in cui sono sottoposte a ulteriori abusi.
La stessa regolamentazione dell’immigrazione rappresenta spesso un pericolo per le donne che, essendo soggette alle norme in questa materia, sono in una posizione di vulnerabilità; mancano corridoi dedicati e sicuri, che permettano loro di evitare di trovarsi in forme di dipendenza, dal datore di lavoro o dal familiare a cui si sono ricongiunte. E anche a forme di discriminazione o di violenza. «Con la Casa internazionale delle donne, Lesconfinate e altre associazioni, stiamo portando avanti un progetto che si chiama Tribunale delle donne per le donne in migrazione» racconta l’avvocata «ed emerge chiaramente come il grado di tutela dei diritti che si trovano in Italia è molto disomogeneo. Ci sono donne che avrebbero diritto alla protezione internazionale per la migrazione forzata e altre persecuzioni di genere, ma rimangono senza tutela giuridica.
A Palermo, per esempio, ne abbiamo conosciute tante, di origine nigeriana, che, pur essendo meritevoli di riconoscimento dello status di rifugiata, sono per lo più prive di permesso di soggiorno perché senza residenza anagrafica. Non rimane loro che provare a chiedere il permesso di soggiorno al Tribunale per i minorenni, in quanto madri di figli piccoli sul territorio, ma questo significa maggiore instabilità del loro status». Rispetto agli uomini, infatti, rischiano di avere meno potere negoziale, meno denaro, e di ottenere più difficilmente un domicilio necessario per l’ufficio immigrazione; oppure sono sottoposte a forme di violenza di genere. Anche i settori in cui sono impiegate – spesso quello domestico o della cura – offrono meno tutele e garanzie. È per questo motivo che serve un lavoro capillare di formazione e di accompagnamento per le richiedenti asilo e le rifugiate – come, per esempio, il progetto Grase, finanziato dal programma europeo Rights, equality, citizenship-Rec, della fondazione Ismu assieme a The Adecco Group – svolto dalla società civile e dalle organizzazioni femministe sul territorio. Sarebbe necessario anche investire sull’autonomia abitativa: molte donne migranti, infatti, testimoniano una grande difficoltà a trovare appartamenti e case in affitto e, addirittura, raccontano di non essere nemmeno prese in considerazione dai proprietari quando cercano un alloggio. A dover essere riformato, quindi, è l’intero sistema dell’accoglienza, che è molto cambiato – diventando estremamente più restrittivo – negli ultimi vent’anni: se prima i canali d’accesso legali in Italia c’erano, oggi, per i migranti e le migranti, diviene sempre più complicato individuare un’opzione diversa dall’affrontare i difficili percorsi nel Mediterraneo e lungo la rotta balcanica, difficili per tutti, ma soprattutto per le donne.
In apertura foto di Daiano Cristini/Agenzia Sintesi