Donne e lavoro, ecco come migliorare la situazione italiana
In Italia gli occupati sono 23 milioni. Poco più di un terzo è composto da donne (9,7 milioni). Il tasso di occupazione femminile italiano è aumentato negli ultimi anni, toccando il 48,8 per cento. Ma la crescita è lenta, e l’Italia resta tra i Paesi peggiori d’Europa sul fronte della partecipazione delle donne al mercato del lavoro. La media europea è del 60 per cento. E basta fare un confronto con i Paesi vicini per rendersi conto della distanza: in Olanda le donne che lavorano sono i due terzi del totale degli occupati, in Germania la metà. Fa peggio di noi solo la Grecia con uno scarso 45 per cento di occupazione femminile. Il risultato è che, secondo l’ultimo rapporto dello European Trade Union Institute (Etui), il divario occupazionale di genere in Italia tocca quota 18 per cento.
Negli ultimi anni, certo, la situazione è migliorata. Le donne che hanno fatto ingresso nel mercato del lavoro sono cresciute e l’occupazione femminile, come certificato dall’Istat, è al suo massimo storico dal 1977. Ma c’è un rovescio della medaglia. Insieme all’occupazione femminile, è cresciuto anche il lavoro part time, di cui le donne fanno un grande utilizzo, molto più degli uomini, soprattutto negli anni post-maternità. Secondo i dati Istat, il 32,8% delle lavoratrici donne fa un lavoro part time (gli uomini sono l’8%). Uno strumento di conciliazione lavoro-famiglia, certo. Ma che non sempre, però, è scelto dalle lavoratrici. È qui che si inserisce il problema del part time involontario, di cui l’Italia detiene il record: sei su dieci sono donne. Parliamo di lavoratrici che fanno part time, ma vorrebbero in realtà lavorare full time. In Italia c’è stato un vero e proprio boom di part time involontari, passati dai 403mila del 2009 ai 748mila del 2016. Con l’aggravante, come spiegano i ricercatori Istat, che in molti casi sono anche full time mascherati.
Qual è, allora, il problema dell’occupazione femminile italiana? Il nodo si chiama conciliazione lavoro-famiglia. Tradotto: figli, e spesso anche nonni, da accudire. Lavori di cura che ancora in Italia sono quasi sempre a carico delle donne: nelle coppie di occupati con donna tra 25 e 44 anni, in un giorno medio settimanale la donna lavora in totale (lavoro retribuito e familiare) 53 minuti in più del suo partner, e il divario cresce di oltre un’ora alla presenza di figli.
Cosa servirebbe quindi? Maggiori servizi. A partire dagli asili nido, che ad oggi in Italia coprono solo il 22,8% del bacino totale dei bambini sotto i tre anni.
Non a caso, è ancora alto il numero delle donne che escono definitivamente dal mondo del lavoro dopo l’arrivo del primo figlio. Secondo i dati forniti dall’Ispettorato nazionale del lavoro, le donne che si sono licenziate in un anno sono state 29.879. Tra le mamme, appena 5.261 sono i passaggi ad altra azienda, mentre tutte le altre (24.618) hanno specificato motivazioni legate alla difficoltà di assistere il bambino (costi elevati e mancanza di nidi) o alla difficoltà di conciliare lavoro e famiglia.
Cosa servirebbe quindi? Maggiori servizi. A partire dagli asili nido, che ad oggi in Italia coprono solo il 22,8% del bacino totale dei bambini sotto i tre anni. La percentuale negli ultimi anni è cresciuta, soprattutto al Nord e al Centro, mentre al Sud resta ancora molto bassa, e spesso senza orari prolungati. Lo stesso è accaduto con il tempo pieno alle scuole elementari, che resta comunque meno diffuso nel Mezzogiorno.
Ma il cambiamento più importante da attivare resta quello culturale, che ha a che fare con la distribuzione del lavoro domestico tra uomini e donne. Uno sbilanciamento che nelle coppie giovani comincia a ridursi. E in questa via, seppur lunga e tortuosa, per il miglioramento della condizione lavorativa femminile, il titolo di studio diventa una leva importante. L’Italia in questo eccelle. Secondo i dati del World Economic Forum, le iscrizioni delle donne all’università superano infatti quelle maschili di 36 punti percentuali. Si vede infatti che con titoli di studio più alti la differenza salariale di genere diminuisce e la partecipazione al lavoro delle donne aumenta.
Cambiare il sistema vuol dire, per esempio, fare delle leggi per la parità sul congedo per la nascita di un figlio, come accade già in molti Paesi del centro e del Nord Europa.
La questione culturale, inevitabilmente, si rispecchia nella legislazione esistente. L’Italia è il Paese col più lungo congedo di maternità d’Europa, ben 150 giorni contro i 112 giorni della Francia e della Spagna, o i 90 della Germania. Ed è uno tra i Paesi che remunera meglio il congedo, con l’80% della retribuzione pagata.
Spesso essere costrette a fermarsi per 150 giorni è un problema. Cambiare il sistema vuol dire, per esempio, fare delle leggi per la parità sul congedo per la nascita di un figlio, come accade già in molti Paesi del centro e del Nord Europa, dove è passato il concetto che anche il padre ha il dovere della cura e dell’educazione dei propri figli. L’Italia, invece, dà ai padri solo quattro giorni di congedo, contro i 13 giorni spagnoli e i 73 francesi.
Le conseguenze per il nostro Paese sono più che negative, perché non si tratta solo del sottoutilizzo della forza lavoro femminile, ma anche della sua componente più istruita. Nel recente rapporto di Eurofound sul tema, si afferma infatti che siamo il Paese europeo che più avrebbe benefici da un aumento dell’occupazione femminile. Il costo complessivo per l’Italia della sottoutilizzazione del capitale umano femminile è pari a 88 miliardi di euro, cioè al 5,7% del Pil. Un aumento delle donne occupate equivale all’aumento della ricchezza dell’intero Paese.