Donne leader, non servono (necessariamente) i pantaloni
Scrive Bell Hooks nel saggio “Il femminismo è per tutti” (Tamu Edizioni) che “L’erronea idea che il movimento femminista sia anti-maschi ha portato con sé l’erronea supposizione che tutto lo spazio femminile sarebbe per forza di cose un territorio sgombro dal patriarcato e dal pensiero sessista”. Che significa? Semplicemente che non è sufficiente essere donna per essere femminista. Basta osservare quanto avviene in certi ambiti professionali, in cui “la fondatrice è una donna“, “il CEO è donna“, “il top management è all’80% donna“, eppure il sistema penalizza le donne e le madri sul lavoro, disincentiva le carriere femminili e l’occupazione femminile.
Accade talvolta, infatti, che quando alcune donne raggiungono posizioni apicali, infrangendo il famoso soffitto di cristallo, e svolgono compiti che storicamente erano esclusivi degli uomini, siano tentate dall’idea, spesso inconsapevole, di replicare alcuni comportamenti da “uomo alpha” e assumano un modello di leadeship basato sull’aggressività. Si tratta di una infida trappola.
Eppure, accade di frequente. Lo testimonia (anche) il report 2021 di Six Seconds State of the Heart, il più grande studio al mondo sull’intelligenza emotiva, così come il report 2021 di McKinsey “Women in the Workplace”: nonostante le donne sul lavoro sostengano maggiormente i collaboratori, si informino di più e forniscano maggiore supporto emotivo, quando diventano leader, talvolta mettono un freno a queste skill.
Attenzione però, non stiamo dicendo che le donne debbano essere mansuete e gli uomini aggressivi. Affatto. E nemmeno che lo stile di leadership femminile debba essere tendenzialmente diverso da quello maschile. Le donne, si dice, sono più collaborative, apparentemente accomodanti e cercano, se possibile, la mediazione. Non è scontato, tuttavia, che queste caratteristiche appartengano intrinsecamente alle donne. Credere che le donne abbiano, per genetica, caratteristiche, inclinazioni e capacità differenti da quelle degli uomini, senza considerare l’influenza esercitata dal contesto socio culturale, oltre che storico, è un bias cognitivo. Così come non è scontato che lo stile di leadership maschile si traduca necessariamente in un approccio aggressivo. Oggi le nuove ricerche mostrano che esistono pochissime differenze tra i cervelli degli uomini e quelli delle donne e che queste non sono sufficienti per spiegare gli stereotipi e i ruoli che ricopriamo nella società.
Ma quello su cui ci stiamo interrogando è questo: è possibile essere un buon leader senza necessariamente “indossare i pantaloni”?
Abbiamo perciò chiesto a cinque manager di successo di raccontarci qual è la loro idea di leadership. Ecco le risposte:
- Quanta ricchezza sta nella diversità tra le persone
Elena Miroglio, presidente Miroglio Fashion.
“Io credo in modelli di leadership che esulano da modelli di genere. Nel tempo ne ho incontrati diversi. Più modelli possono essere vincenti, in base al contesto, alla cultura, alla geografia in cui un’azienda agisce. Credo in una leadership che incentivi l’imprenditorialità di ognuno, il senso di responsabilità e partecipazione. La capacità di far accadere le cose, con una forte e costante attenzione al cliente sono linee guida che possono aiutare le organizzazioni a superare ostacoli culturali, generazionali e di genere. Per competere oggi, con i mercati sempre più complessi, è importante una leadership diffusa in azienda. Da un lato trasmettere obiettivi e valori chiari e motivarne il raggiungimento, dall’altro dare lo spazio perché i talenti possano esprimersi. Forse caratteristiche utili in tale senso, tendenzialmente più femminili, sono una maggior empatia e attenzione verso il prossimo, che si traducono in maggiore collaborazione e apprezzamento della diversità. Mentre in passato, a volte, la gentilezza veniva letta come debolezza, oggi è un segnale importante di considerazione dell’altro. Le sfide maggiori incontrate, per esperienza diretta o indiretta, sono principalmente due. La prima riguarda in modo più o meno velato il pregiudizio nei confronti dei linguaggi espressivi più tipicamente femminili a volte giudicati emotivi e quindi meno equilibrati. La sfida in questo caso è far capire che queste differenze possono essere una ricchezza, più che un limite. E si ritorna all’importanza del capire la ricchezza che sta nella diversità tra le persone, l’importanza dell’ascolto, del sapersi mettere nei panni degli altri. Nell’essere convinti che l’output di un insieme di individui sia migliore di quello del singolo. L’altro ostacolo che ho riscontrato negli anni, molto più presente per le donne, è la conciliazione fra vita privata e attività lavorativa, dove spesso la donna, per accordare la vita famigliare con il lavoro, deve accettare compromessi in merito alla propria carriera o alla propria passione. Per questo sono importanti servizi che, oltre a fornire concretamente aiuti, possano dare serenità nel trovare l’equilibrio giusto. In Miroglio ad esempio abbiamo l’asilo aziendale, attivo da oltre 50 anni, e attività realizzate in partnership per aiutare l’organizzazione del tempo libero dei figli a fine scuola. Iniziative come flessibilità dell’orario e smart working consentono una riduzione dello stress nella gestione delle complessità”.
- Ho scelto di non indossare i pantaloni: sono me stessa al 200%
Camilla Coletti, responsabile del centro di Pisa dell’Istituto Italiano di Tecnologia (IIT) dove dirige il Graphene Labs, dove si studiano cristalli di grafene dello spessore di un atomo.
“A me di indossare (letteralmente) i pantaloni è stato chiesto quando, da studentessa di dottorato, frequentavo laboratori di ingegneria a prevalenza maschile, per evitare che i miei colleghi potessero distrarsi (e non è che le mie mises fossero degne di un red carpet). E spesso mi è stato (gentilmente) suggerito che per essere credibile sarebbe stato opportuno omologare la mia apparenza a quella stereotipata dello scienziato. Quella di modificare la propria immagine, quindi l’apparenza, è solo una delle mille pressioni che le donne che lavorano in ambiti a prevalenza maschile possono trovarsi a sperimentare, perché richiesto in modo diretto o indiretto. Durante la mia carriera mi sono spesso domandata se l’essere empatica con collaboratori e collaboratrici, insomma essere davvero me stessa, potesse essere un elemento penalizzante. Sicuramente a volte può essere letto come tale. Ma ho scelto di “non indossare i pantaloni”, inteso come di non stravolgere il mio comportamento per avvicinarmi a quello della maggioranza di chi mi circondava sul posto di lavoro, quindi uomini, e anzi di far diventare un punto di forza le peculiarità del mio carattere: al 200%, con pregi e difetti. Sono le azioni di ognuno di noi che modellano il nostro futuro, e il sogno è quello di una società inclusiva, in cui non ci sia bisogno di mascherarsi o uniformarsi a chi rappresenta in quel momento la maggioranza”.
- Alle leader serve (più) sorellanza
Daniela Poggio, executive director global communication Angelini Pharma.
L’ultimo rapporto del World Economic Forum lo ha confermato: la parità di genere resta una priorità. A livello globale già prima della pandemia gli uomini possedevano il 50% in più della ricchezza netta delle donne e controllavano oltre l’86% delle aziende. La pandemia ha fatto crollare la partecipazione delle donne al mercato del lavoro, non solo in Italia ma in tutto il mondo allontanando di altri 36 anni il momento in cui si potrà raggiungere l’uguaglianza di genere. Basterebbe questo a convincere le donne ad allearsi, ma la verità è che la sorellanza non esiste come fenomeno assoluto. La sorellanza va costruita e costa molti sacrifici, anche in azienda. Tenere vicino le donne, anche quelle che ti tradiscono o ti feriscono, non è facile, tenere vicino le donne che si alleano con chi detiene il potere (tipicamente uomini) è ancora più difficile. Perché a contrapporsi non sono solo obiettivi di lavoro e una visione del femminile, ma anche stili di leadership. Cosa intendo? Che spesso le donne che mantengono posizioni di prestigio e privilegio, sono quelle che in qualche modo si riescono a conformare di più al modello esistente: verticalità, autorità, scarsa delega. Le donne che restano più fedeli a se stesse, alla loro natura femminile sono al contrario leader che ispirano, facilitatrici di gruppi che crescono e si sviluppano, conoscono il valore della delega e della gratitudine, si preoccupano dei propri collaboratori e delle proprie collaboratrici, non solo sul piano personale. C’è spazio per queste leader? Sì, ma ad un certo punto, il sistema tende a privilegiare la conservazione. Credo sia un fatto normale. A quel punto conta la fiducia in se stesse, la concezione rivoluzionaria del potere che si vuole perseguire. E conta continuare a praticare la sorellanza, perché tutte le donne hanno dentro di sé la capacità di allearsi. Chi è un pochino più avanti in questa consapevolezza, deve portare per mano anche le altre.
- Per essere un bravo leader servono attenzione e cura verso le persone
Anna Marras, socia amministratrice di EdiliziAcrobatica, società specializzata nell’edilizia su fune, dove impalcature, ponteggi e piattaforme sono sostituite dalla tecnica della doppia fune di sicurezza. Esperta in formazione del personale, con lei la società è passata, in 15 anni, da 12 a 1.400 dipendenti.
“Io credo profondamente nella preziosità di ogni singolo essere umano, credo che ognuno, uomo o donna che sia, possa essere felice solo nel pieno rispetto di se stesso e delle proprie naturali inclinazioni. Questo significa che non credo esista un modo giusto e uno sbagliato per essere leader, a patto che questo ruolo venga rivestito in pieno accordo con la propria natura. Chiunque, trovandosi ai vertici di un’azienda a dover guidare delle persone verso un risultato, può essere un leader eccellente se usa e migliora costantemente le proprie attitudini, al fine di aiutare i suoi collaboratori a crescere. Non credo in un modello di leadership unico e vincente, credo però che gli esseri umani possano essere eccellenti leader solo se rispettano, incoraggiano e sostengono chi sta loro intorno. Quando sono entrata in EdiliziAcrobatica, sono entrata in un ambiente che, per forza di cose, era prevalentemente maschile. Tuttavia non ho pensato di modificare le mie modalità operative per costruire la mia credibilità come leader: io provenivo dal settore del luxury e della bellezza, decisamente più femminili, eppure il mio modo di lavorare come manager delle risorse umane non è cambiato. Ho semplicemente continuato a prendermi cura delle persone, aiutandole ogni giorno a crescere affinché potessero realizzare ogni loro obiettivo. E sostanzialmente credo che sia questo il compito di un leader, uomo o donna: aiutare le persone. Va da sé che se l’intenzione profonda è questa non esistono modalità operative sbagliate, perché per aiutare le persone servono attenzione e cura verso di loro”.
- Mentre diventi leader domandanti sempre: “io chi sono”?
Laura Sinatra, coach, trainer, CEO e fondatrice della società di consulenza Eapitalia World, che promuove l’employee assistance program, il programma di assistenza per i dipendenti nei momenti di crisi aziendali.
“In un recente progetto di coaching nel quale i mentori erano prevalentemente donne, manager e in un percorso di crescita verso la dirigenza, sono emersi diversi temi che hanno segnato il percorso. Innanzitutto: sulle prime le mentori, tendono a rispondere ad ogni input o domanda in maniera sintetica, stanno sulla difensiva. Tendono a chiudere ogni ragionamento velocemente. I silenzi sono frequenti. Gli sguardi sono diretti, ma non ingaggiati. Traspare una fatica e un certo grado di sofferenza nell’aver raggiunto quei traguardi professionali. E poi, si percepisce una tensione tra due dimensioni. Da un lato le istanze tra come si vorrebbe interpretare il proprio ruolo, dall’altro una versione idealizzata di quel ruolo. In questa polarità si alterneranno meccanismi rinunciatari, che sfociano talvolta nella versione più spietata del perfezionismo. Una dirigente di lungo corso in una recente sessione mi ha confessato: “Se oggi potessi tornare indietro, vorrei abbracciare la ragazza che ero e dirle di liberarsi subito dai condizionamenti, di essere più se stessa sin da subito, sin da bambina! Oggi non ho timore di fare io il caffè per il mio team e portare loro i muffin che ho preparato il giorno prima. Non fa di me un capo più debole e una professionista meno competente. Così come non temo di esprimere il mio dissenso quando siedo al tavolo del comitato direttivo. Ho dovuto imparare a farlo: per anni ho sempre provato disagio nel prendere la parola, nel prendere spazio”. La parte più difficile e affascinante è quella di incanalare le proprie risorse nel comprendere chi si è e come questa identità possa favorire la realizzazione dei propri obiettivi. Quindi trasformare la creazione di leadership partendo da un: chi sei?