Da educatore dei servizi a educatore della comunità


Su Google Trends le query per “educatore socio pedagogico” negli ultimi dodici mesi hanno segnato un +650% e in generale per molti argomenti correlati alla figura dell’educatore professionale e alla sua attività (compreso il relativo risvolto formativo, per corsi e CFU) si sono registrate vere e proprie impennate. Le ultime due leggi di bilancio (L. 205/2017 e L. 145/2018) hanno messo mano a questa figura e la principale novità è l’obbligo di una laurea per esercitare la professione: in Italia sono almeno 150mila le persone che la svolgono, in servizi che coinvolgono più di mezzo milione di utenti. In questa fase transitoria sta emergendo con forza l’urgenza di una riflessione complessiva sulla definizione del profilo professionale dell’educatore e della sua formazione, nella prospettiva di preparare sempre meglio quegli “educatori dell’inclusione” che sono cruciali per realizzare nei fatti la tanto invocata (ma meno realizzata) integrazione socio-sanitaria: cioè per promuovere il benessere della persona a tutto tondo, in linea con la strategia con l’Agenda europea 2030 che indica l’inclusione sociale come asset centrale di sviluppo.

In Italia esistono due percorsi formativi per diventare educatore, la laurea in scienze dell’educazione (L18 e L19) e la laurea in educatore professionale, incardinata nelle facoltà di medicina (Snt2). La normativa più recente recepisce questa differenza, da un lato riconoscendo finalmente la qualifica di educatore professionale anche ai laureati in Scienze dell’Educazione, dall’altro distinguendo fra educatore professionale socio sanitario e educatore professionale socio pedagogico e dettagliando per ciascuno gli ambiti di attività.

Due percorsi di studio, due nomi

«L’occupabilità è certamente massima per gli educatori professionali socio sanitari, in particolare per i maschi. Per questa figura da poco vige l’obbligo di iscrizione all’albo e di conseguire crediti ECM. Il corso di laurea triennale è a numero chiuso, anche se difficilmente il numero dei richiedenti supera il numero dei posti, con 1.500 ore di tirocinio. L’educatore professionale socio sanitario può lavorare in tutti i settori dell’educazione fatta eccezione per la scuola intesa come didattica: il socio-assistenziale, il sociale, il socio-sanitario compresa le riabilitazione e il sanitario puro, post acuto. Cito ad esempio la psichiatria, la riabilitazione, i minori in situazione di disagio (sia per problematiche comportamentali o di apprendimento, di disabilità… sia pure per problematiche della famiglia), la riabilitazione cognitiva, tutte le dipendenze, la salute mentale, gli anziani, l’educativa di strada, la cooperazione di tipo b per l’inserimento lavorativo, inclusa quella speciale area del disagio sociale che sono i reclusi»: spiega Massimiliano Malè, pedagogista, Direttore dei Servizi della Cooperativa Sociale Nikolajewka e Consigliere Nazionale di Federsolidarietà-Confcooperative. L’educatore professionale socio pedagogico invece, che avrà in tasca la laurea in scienze dell’educazione (classe 18 o 19), quindi non a numero chiuso e senza l’obbligo di iscrizione a un albo, potrà lavorare «in tutto quello che abbiamo detto prima tranne la riabilitazione e la salute mentale: ad oggi non può entrare nel sanitario con un concorso pubblico».

Io ripartirei dal saper fare, perché per fare inclusione serve una grandissima preparazione tecnica

Massimiliano Malè, pedagogista

Avere coraggio

Chiarito questo, i plus per l’educatore professionale di domani quali sono? «Avere disponibilità a lavorare su turni, 365 giorni all’anno e H24, come un lavoratore del sociale e del sanitario. C’è una complessiva tenuta del sistema dal punto di vista dell’occupabilità ma in generale le chances maggiori sul medio periodo la dà il socio-sanitario, che ha risorse stabili», continua Malè. «Io ripartirei dal saper fare, perché per fare inclusione serve una grandissima preparazione tecnica, in particolare la capacità di utilizzare bene l’ICF e gli strumenti di progettazione: l’educatore è innanzitutto quella persona che redige e fa progetti educativi, ovvero risponde a un bisogno di fragilità attraverso il metodo dell’educazione. Significa avere a cuore il fatto che l’essere umano è un essere sociale, che le relazioni vanno sempre mantenute e se non ci sono vanno costruite: non è dove vivi che fa inclusione, ma chi frequenti. Significa non aver paura di lavorare con le porte sempre aperte. E anche avere un grandissimo coraggio, aver voglia di fare e di innovare, non limitarsi ad ascoltare le esperienza del passato ma di fare cose nuove».

Passare da servizi per l’accoglienza a servizi per l’inclusione, da educatori dei servizi a educatori di comunità

Marco Bollani, educatore

L’orizzonte ecologico

La vera attualità della figura professionale dell’educatore tuttavia è legata a doppio filo all’attualità strategica dell’inclusione sociale. «Io credo che oggi ogni operatore sociale debba cominciare a confrontarsi seriamente con il significato di questa parola, perché credo che il futuro dell’agire professionale di chi fa l’educatore non possa che orientarsi verso processi inclusivi», afferma Marco Bollani, educatore, direttore della cooperativa sociale Come NOI, Tecnico fiduciario Anffas e Consigliere Regionale di Federsolidarietà Confcooperative Lombardia. «Sempre più spesso ci si trova a fare i conti con la tendenza di operatori, servizi ed organizzazioni ad operare “in esclusiva” sulle persone che accolgono, con un approccio che potremmo definire quasi “all inclusive”».

L’orizzonte del nuovo modello da concretizzare è quello “ecologico” delle interdipendenze: se ognuno di noi è davvero capace ed in grado di sostenere la propria vita nella misura in cui riconosce non solo chi è e cosa può e deve fare da solo, ma anche la propria dipendenza dagli altri, ecco che l’orizzonte del funzionalismo va superato poiché diventa un errore pensare che per promuovere inclusione e qualità di vita occorra aumentare esclusivamente le competenze e le autonomie delle persone.

«Allora come educatori non possiamo che orientarci a costruire dei contesti ricchi di interdipendenze significative, contrastando tutti i processi che generano dipendenze esclusive e lavorando per infittire, diversificare e rendere meno esclusive le relazioni umane che costituiscono il sostegno principale per l’esistenza di ogni persona. A quel punto cambia la vita delle persone, perché le persone sono facilitate nel superare le barriere e riescono a fare cose che prima non facevano. Questo succede innanzitutto perché siamo cambiati noi apportatori di sostegno, perché noi abbiamo cambiato il contesto e le regole con cui in esso ci si relaziona, perché abbiamo interpretato bene il nostro ruolo di educatori e la mission dei nostri servizi. Da servizi per l’accoglienza a servizi per l’inclusione; da educatori dei servizi a educatori di comunità, che progettano nuovi contesti di vita e nuove opportunità inclusive per il benessere delle persone e della comunità tutta».

Di |2024-07-15T10:05:21+01:00Febbraio 13th, 2019|Human Capital, MF, Welfare|0 Commenti
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